Sarà il periodo non proprio entusiasmante (sia a livello personale che di uscite discografiche) ma questo
“Lost In The Ghost Light” è probabilmente l’unico disco di
Tim Bowness solista che ho apprezzato davvero e che certamente riascolterò ancora in futuro.
Il concept della rock star in declino (anche se un po’ abusato negli anni) ha sempre un suo fascino e l’eclettico artista britannico ha pensato di darne una lettura moderna coinvolgendo per l’occasione anche un cospicuo numero di ospiti.
Non c’è metal qui, nemmeno l’ombra. C’è qualche deviazione elettrica, quella sì, ma soprattutto tanto prog romantico e raffinato, nella miglior tradizione
Bowness. L’iniziale
“Worlds Of Yesterday” presenta già tutti i timbri tipici dell’estetica progressiva: i bass pedals (forse qualche “defender”, scorrendo i credit degli album di
Malmsteen, è incappato nella parola “Taurus” ogni tanto), il mellotron, le chitarre a 12 corde, il flauto (qui suonato da
Kit Watkins).
“Moonshot Manchild” si sorregge su morbidi arrangiamenti d’archi, sintetizzatori Seventies, il pianoforte di
Stephen Bennett e un’elegante parte strumentale rarefatta e ben architettata. In
“Kill The Pain That’s Killing You” sentiamo echi di King Crimson e del Bowie più sperimentale (sarà l’immaginario di Ziggy Stardust, ma l’ho percepito spesso il compianto artista tra le note di questo full-length), prima dell’elaboratissima
“Nowhere Good To Go”, dal piglio sinfonico alla Barclay James Harvest.
“You’ll Be The Silence” è meno riuscita: una pinkfloydiana
“Eclipse” (pure le armonie sono simili) infinita e rallentata che sfocia nell’ansiogena title-track di scuola Van Der Graaf Generator (epoca
“Pawn Hearts”). L’apice dell’album è probabilmente
“You Wanted To Be Seen”, dall’inizio struggente guidato dal violino di
Steve Bingham e dall’evoluzione più vicina ai Genesis e alle cose più ruvide dei Porcupine Tree (al banco di regia c’è
Steven Wilson, compagno di
Bowness negli indimenticati No-Man, e come sempre superlativo nel rendere giustizia alla performance di tutti i musicisti presenti).
“Distant Summers” chiude l’opera in modo sussurrato, con il guest
Ian Anderson (Jethro Tull) a impreziosire la traccia con un suo solo di flauto.
Sentitamente consigliato.
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