L'esordio discografico degli
Harvest Gulgaltha, misteriosa band di Phoenix, Arizona, è una lenta, opprimente, discesa negli inferi.
Il gruppo prende il death, il black, massicce dosi di doom, spoglia questi generi di qualunque orpello o deriva sperimentale, ne coglie l'essenza più pura e la diluisce all'interno di otto brani dall'incedere monolitico, sebbene non manchino partiture veloci, neri come il più nero dei buchi neri, possenti e massicci, asfissianti e senza alcuna concessione alla melodia.
"Altars of Devotion" è un lavoro brutale, un lavoro dal riffing ossessivo e, per certi versi ipnotico, è un lavoro che si rifà ai Portal ed a tutta quella schiera di moderni interpreti dell'estremo in musica senza aggiungere nulla di nuovo, ma "accontentandosi" di suonare in maniera assolutamente devastante e, lo ripeto, assolutamente nera.
In questo album non c'è un filo di speranza, non c'è luce.
Qui è tutto dolore e morte.
Questo è un album che è un sudicio monolite, probabilmente "uguale" dall'inizio alla fine, ma che non fa prigionieri ed esprime semplicemente, e direi in maniera perfetta, il più profondo abisso che alberga nell'animo di ognuno di noi.
Adesso ho il bisogno di uscire a prendere una boccata di aria...
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