"
Torment".
E veramente si può parlare di tormento, per le orecchie, per la mente, per il death metal.
I
Six Feet Under sono un tormento, un tormento continuo da 20 anni, da quel "
Warpath", opera seconda della band statunitense, che già dopo un solo disco buono all'attivo sanciva artisticamente la fine della carriera artistica della formazione condotta da
Chris Barnes.
Artisticamente, ahimè, perchè a livello di riscontro commerciale i
6FU viaggiano incredibilmente forte negli Stati Uniti e logicamente anche una label solitamente illuminata come la
Metal Blade ci pensa due volte a scaricarli, e siamo quindi giunti nel 2017 al sedicesimo disco, no dico SEDICESIMO, per un gruppo che sarebbe inadeguato persino alle feste liceali o nei centri sociali per scroccare da bere gratis.
Se c'era stato un pizzico di barlume con "
Undead" nel 2012 c'ha pensato Barnes a far fuori tutti, compeso
Rob Arnold che almeno aveva portato un minimo di freschezza nei riff stantii e marci di
Steve Swanson, incredibilmente fuoriuscito pure lui dopo ben 18 anni di permanenza nella band: non me ne vogliano i neo-entrati ma non ne conosco nessuno, fatto sta che siamo ripiombati nel vecchio sound dei Six Feet Under, lento, ossessivo, ripetitivo, noioso, soporifero all'inverosimile, con la voce gorgogliante di Barnes che è sempre più parodia di se stesso, davvero infastidente ed ormai per nulla "estremo": andate a risentirvi un "
Eaten Back to Life" a caso e tracciate una linea con i grugniti riscontrati su questo "Torment".
Same old story: non ho idea chi siano i fan storici che consentano a questa band di andare avanti indisturbata ma perlomeno mi auguro che in Italia non ve ne siano.
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