Definiscono la loro proposta ”
Rock Degressivo” e già da questa catalogazione, intesa a sfrondare di seriosità un genere musicale spesso eccessivamente
snob, i veronesi
Astrolabio ostentano un approccio ironico alla materia, utilizzando le “armi” della satira e della parodia per fornire all’astante un’immagine piuttosto efficace della disgregata realtà sociale, politica e culturale in cui viviamo.
All’interno di quest’universo grottesco e “fantozziano”, dove il sorriso ti conduce a riflettere sul conformismo comune e sulle meschinità di una società affetta da conflitti, distorsioni e da una forma diffusa di becera demagogia, si muovono musicisti alquanto preparati e ispirati, capaci di rivolgersi alla migliore stagione del “pop italiano” degli anni settanta (PFM, Banco Del Mutuo Soccorso, Delirium, …) senza lasciarsi affossare dal peso di cotanto patrimonio o cedere a tentazioni virtuosistiche, pur mantenendo saldi i principi creativi tipici del settore.
Un
rock “progressivo” dai contorni classici, dunque, ma anche pragmatico e “reale” (o forse sarebbe meglio dire “surreale”), che dietro all’apparente “leggerezza” nasconde un impatto comunicativo ben superiore a molti
slogan tanto roboanti quanto retorici.
“
I paralumi della ragione”, attraverso un
concept suddiviso tra sogno e coscienza, si rivela un ascolto piacevole e coinvolgente, subito illuminato dalle pulsazioni
hard-prog di “
Nuovo evo” e dalle atmosfere mutevoli di “
Una cosa”, ricche di
pathos e tensione espressiva.
Si prosegue con le vibranti vicende
Kafkiane di “
Pubblico impiego”, in “
Arte(Fatto)” il gruppo solca strutture armoniche maggiormente intimistiche (adatte al tema del brano, in cui si esprime l’atavico senso d’inadeguatezza dell’artista, dibattuto tra critica e pubblico, frustrato dalla difficoltà di far comprendere la sua opera e riceverne un’adeguata gratificazione), in contrasto con il clima giocoso di “
Otto oche ottuse”, una sorta di “filastrocca evoluta” a cui contribuisce pure
Zeno, il figlio di quattro anni del valoroso
mastermind della
band veneta
Michele Antonelli.
“
La casa di Davide”, dedicato alla drammatica e infinita questione Palestinese, con le sue citazioni implicite ed esplicite (l’
incipit, con le parole di
Mahmoud Darwish, rievoca fatalmente gli Area di “
Luglio, agosto, …”, mentre nel prosieguo del pezzo è palese il fugace omaggio ai Deep Purple di “
Black night” ...) e una tessitura sonora variegata e densa di emozioni profonde, è un momento di grande magia
prog-rock e il medesimo appellativo va concesso anche a “
Sui muri”, frammento dall’andamento magnetico ed epico che affronta il tema del decadimento psico-fisico dell’essere umano, qui testimoniato dai molti ocelli di un ragno, insolito spettatore del lento e inesorabile trascorrere del tempo.
Un disco che si colloca con autorevolezza ed eccellenza nel solco della grande tradizione italica del settore e allo stesso tempo è perfettamente inserito nell’attualità di un mondo purtroppo anestetizzato, ipocrita e assurdo, confidando che non sia l’unico possibile e che l’umorismo, la musica e l’arte in generale possano essere risorse importanti per provare a renderlo un po’ migliore o quantomeno differente … bravi
Astrolabio.