Ci sono alcune band che sono riuscite ad entrare nella storia grazie alla pubblicazione di un solo singolo album, diventato, negli anni, oggetto di culto, venerato da ogni amante del vero metal. In questa ridotta schiera rientrano senz’altro gli
Infernal Majesty, che ebbero l’intuizione, nel lontano 1987, di pubblicare quel capolavoro che risponde al nome di “
None shall defy”, vero e proprio caposaldo del thrash metal, che nulla aveva da invidiare a tanti album usciti negli stessi anni, anzi…
Purtroppo per i nostri le cose non andarono come dovevano, e dopo un periodo di successo la carriera iniziò a prendere pieghe poco gradevoli, con continui cambi di line up, discografia altalenante, con poche uscite e decisamente non all’altezza del capolavoro partorito in origine. Questo processo è stato condiviso da molti gruppi. Alcuni di questi hanno avuto l’onestà intellettuale di riformarsi soltanto per esibirsi dal vivo, altri lo hanno fatto solo una volta che si sono resi conto di avere del materiale al pari delle aspettative, altri ancora, spinti non so da cosa, forse da un sentimento di rivalsa, sono tornati sul mercato pur non avendo brani all’altezza della propria fama. Purtroppo per noi, anche gli
Infernal Majesty rientrano in questa categoria.
Dopo due album certamente non epocali come “
Unholier than thou (1998) e “
One who points to death” (2004), ci riprovano con questo nuovo “
No God”. Mi dispiace dover infierire contro la creatura di
Chris Bailey, tornato all’ovile qualche anno fa, ma davvero non ci siamo. “
No God”, nonostante una produzione potente e al passo coi tempi (pure troppo) e qualche riff qua e là veramente interessante, ha purtroppo diversi difetti. Innanzitutto il songwriting è incostante. Come già accennato ci sono riff poderosi, ma altrettanti insulsi. Non solo, i brani non riescono a mantenersi tutti sullo stesso livello compositivo, complice anche il fatto che ci troviamo davanti ad un disco che dura ben 61 minuti, davvero troppi per un lavoro thrash. Sarebbe stato meglio focalizzare l’attenzione solo sui brani più validi, migliorarli ulteriormente, e evitare di disperdere forze e idee in pezzi decisamente sotto tono. Ma il difetto più grande, secondo me, risiede nel fatto che l’impressione che si ha durante l’ascolto è che
Bailey,
Steve Terror e
Kenny Hallman vogliano a tutti i costi dimostrare di essere brutti e cattivi, inserendo nel proprio sound sonorità death metal che nulla hanno a che vedere con il loro stile, con i loro riff maligni e intricati delle origini. La stessa sensazione l’ho avuto ascoltando le ultime cose degli Hobbs’ Angel Of Death.
Peter Hobbs ha subito la stessa metamorfosi, indurendo il proprio sound a dismisura ma al tempo stesso snaturandolo del tutto. Già, perché in entrambi i casi non si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’evoluzione naturale, piuttosto si percepisce una forzatura del tutto studiata a tavolino, e questa cosa mi deprime tantissimo.
Ripeto, alcuni buoni brani ci sono (“
Kingdom of Heaven”, “
Enter the world of the undead”, “
No God”), la voglia di spaccare c’è, ma alla fine dell’ascolto la sensazione che prevale sulle altre è quella di delusione. E ve lo dice uno che il vinile di “
None shall defy” l’ha letteralmente consumato, quindi potete capire l’amarezza…
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