Nemmeno due mesi dopo l'uscita del nuovo lavoro degli
Hellwell (che vede in formazione "
lo Squalo"
Shelton e
Randy Fox, ex drummer dei Manilla) ecco che il quasi sessantenne
Mark torna a farsi sentire con i suoi
Manilla Road dando un seguito al magniloquente "The Blessed Curse" (disco del 2015) e confermando la seconda giovinezza di questa band che, dal 2001 in poi, è tornata a sfornare dischi con regolarità.
Eh, i
Manilla Road, band tanto ignorata quanto preziosa. Non riesco davvero a capacitarmi di come possa passare inosservato un gruppo che ha contribuito ad inventare un genere (l'epic metal, per i kryptoniani) e perseverato nel portare in giro la loro musica pura per oltre quarant'anni. Tutti gli dobbiamo qualcosa. Lacrime a parte, il nuovo "
To Kill a King" prosegue sulla scia del suo predecessore senza prestarsi a chissà quali rivoluzioni (e meno male!) portando in dote un lotto di canzoni che più classiche non si può, dalla durata abbastanza elevata (siamo quasi sempre oltre i cinque minuti) e dal feeling difficilmente riscontrabile in altre band. Sí perché anche grazie ad una produzione naturale, rotonda, sporca il giusto, si riescono a sentire distintamente tutti gli strumenti e l'armonia che da essa deriva. C'è una coesione esemplare tra il cantato di
Patrick (ormai ci sarete abituati, spero), la bellissima batteria di
Neuderth, il basso pulsante sul fondo di
Phil Ross e la magica chitarra dei
Shelton.
Lo Squalo si prende anche il microfono in alcuni casi, tipo nella stupenda
The Arena, e subito scatta il fomento per uno dei pezzi più potenti del lotto, degna di apparire nella tracklist di un "
Open The Gates" o di un "
Mystification" con la sua potenza trascinante. Per lo più abbiamo a che fare con brani molto atmosferici, che legano testo e musica, che spesso partono in punta di piedi, quasi rarefatti, con una voce sussurrata, chitarre arpeggiate, poi piano piano prendono forma, mettendo muscoli dove servono ma rimanendo sempre fascinose e malinconiche il giusto. Tra gli esempi migliori di questo modo di comporre abbiamo sicuramente
In The Wake e
The Other Side, brani che se non vi emozionano... boh, vi meritate le Butcher Babies. In generale "
To Kill a King" è un disco vintage, vero, che gracchia e con gli schiocchi del vinile (sì, anche negli mp3), più "tranquillo" ed atmosferico del suo predecessore, che si presenta quasi come una lunga jam session. Pochi i momenti aggressivi in cui parte la doppia cassa e le valvole si saturano, tanti i momenti emozionanti in cui le canzoni ti toccano. Ecco, a volte gli assoli stridenti e le linee di chitarra vengono tirate un pochino per le lunghe, oltre il dovuto, ma ci sta che questa "gentaglia" si esprima come più gli aggrada, senza guardare in faccia a nessuno. Dopo quarant'anni se lo possono permettere. Avrete notato che ho parlato del disco senza entrare troppo nel dettaglio, senza fare un track by track, sottolineando solo alcune cose (pregi e difetti) ed evitando di paragonarlo alla produzione precedente, questo perché ritengo che non abbia nessun senso confrontare "
To Kill A King" con "
The Deluge" o con "
Voyager" ad esempio (mamma che disco...). I
Manilla Road non hanno MAI fatto un brutto disco (ok, qualcuno non gli è riuscito benissimo come "
The Circus Maximus" o "
Atlantis Rising"), il loro suono è sporco, semplice, epico e potente. Prendere o lasciare. Se lasciate, peggio per voi.