Ci sarebbero tante cose da dire su questo (inatteso)
“Emotional Tattoos”, ma proverò a concentrarmi esclusivamente su quelle che ritengo più importanti.
A scanso di equivoci, preciso subito che se siete alla ricerca di un nuovo
“Storia Di Un Minuto”, “Per Un Amico” o
“L’Isola Di Niente” siete parecchio fuori strada - nonostante la doppia versione italiano/inglese del full-length avesse lasciato intuire qualcosa del genere. Della formazione storica è rimasta “solo” la sezione ritmica (
Franz Di Cioccio e
Patrick Djivas, comprensibilmente preponderanti pure nel mix) e quindi anche sul fronte melodico/armonico - malgrado la line-up di tutto rispetto - sono lontane quelle intuizioni che quaranta e passa anni fa avevano reso grande la
Premiata Forneria Marconi in tutto il mondo.
Ma la cosa che più di tutte mi ha lasciato perplesso è la (quasi totale) mancanza di quella dimensione “divertente e divertita”, mediterranea, talvolta teatrale, che da sempre ha caratterizzato la musica degli italiani. L’atmosfera che si respira è per lo più “triste”, rassegnata, cosa resa ancora più marcata dalle liriche, che nel complesso sono ben congeniate. E la musica, inevitabilmente, ne risente…
L’inizio non è propriamente “col botto”:
“We’re Not An Island”/”Il Regno” rimanda al cantautorato di classe ma fa più New Trolls che
PFM.
“Morning Freedom”/”Oniro” si muove sulla stessa lunghezza d’onda, con arrangiamenti che riecheggiano il meraviglioso
“Fabrizio De André In Concerto” e con un breve ma piacevole break strumentale.
“The Lesson”/”La Lezione” è più dinamica ma ancora non del tutto convincente (menzione speciale per
Marco Sfogli che ci mette tanto “del suo” per indorare la pillola), così come la successiva
“So Long”/”Mayday” ancora ancorata al pop meno ricercato (mi è venuto in mente
Phil Collins). Va decisamente meglio con
“A Day We Share”/”La Danza Degli Specchi”, tra gli apici dell’album, dove per alcuni magici momenti incontriamo quella “dimensione” sopra descritta che fanno ben sperare per i minuti successivi e che incoraggiano l’ascolto. Ma
“There’s A Fire In Me”/”Il Cielo Che C’è” smorza ancora una volta i toni per sfociare nella già sentita
“Central District”/”Quartiere Generale” che, nonostante il piglio “combat” da concerto del Primo Maggio, funziona. La strumentale
“Freedom Square” è un altro episodio degno di nota, avvicinabile a classici del calibro di
“È Festa” o
“La Luna Nuova” e prelude alla convenzionalissima
“I’m Just A Sound”/”Dalla Terra Alla Luna”, “salvata in corner” da un ambizioso intermezzo strumentale.
“Hannah”/”Le Cose Belle” non va proprio giù, sembra di ascoltare un b-side dei Dire Straits, prima della conclusiva
“It’s My Road”/”Big Bang”, di ispirazione Eighties, tanto patinata quanto “groovy” alla maniera dei Toto più ammiccanti.
È brutto fare paragoni, ma penso che abbiano fatto di gran lunga meglio i Kansas. Non è il disco che avrei voluto sentire da questa storica formazione, non ho voglia di riascoltarlo e il voto in calce è parzialmente regalato.
Questa è la
PFM del 2017. Prendere o lasciare.
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