La storia non si discute, si rispetta. E i
Kaipa sono storia (di una nazione, di un genere musicale, ma non solo). Dalla "rinascita" datata 2002, gli svedesi - guidati dal mastermind
Hans Lundin - non si sono fermati un attimo, e hanno dato alle stampe album con una continuità invidiabile e inimmaginabile all'epoca.
Il prog sinfonico ed elegante di
"Children Of The Sounds" -
rétro che più non si può e cristallizzato nella sua rassicurante prevedibilità - fa bella mostra di sé già nell'introduttiva titletrack, quasi 12 minuti di musica e parole che partono dagli Yes e dai Genesis per arrivare (esagerando) a Neal Morse e ai Transatlantic. Mancano le sorprese anche nella successiva
"On The Edge Of New Horizons", dove ai nomi già citati si possono aggiungere Unitopia e Southern Empire - anche se paradossalmente si percepisce la mancanza dell'intramontabile Mellotron, sostituito da campionamenti di cori e archi più moderni. In
"Like A Serpentine" gli scenari si fanno bucolici e medievaleggianti - tra sfumature classiche e armonie vocali di scuola Asia - prima della breve ("solo" 7 minuti)
"The Shadowy Sunlight", con il violino di
Elin Rubinsztein in apertura e in chiusura a ricordare i Kansas e una parte centrale meno coinvolgente e riuscita. Il finale (
"What's Behind The Fields") è all'insegna del prog più folkloristico di Focus e Jethro Tull.
Ridendo e scherzando è passata quasi un'ora, e francamente non è stata proprio una passeggiata: perché? Forse è sbagliata la domanda. Proviamo a metterla già in questo modo: può della musica appassionata e formalmente ineccepibile come quella dei
Kaipa risultare comunque troppo datata alle mie orecchie? A malincuore, credo di dover dire di sì.
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