La capacità di esser sempre attuali senza perdere il contatto con le proprie origini è una caratteristica che appartiene solamente alle grandissime band. Gli
Incantation di
John McEntee appartengono, a mio personale giudizio, a questo gruppo elitario, riconoscibilissimi sia quando affondano nel death-doom, sia quando scalciano con furia omicida.
Scorrere la discografia per chi è in cerca di conferme: partendo da
“Onward to Golgotha” uscito nel 1992 per
Relapse fino al più recente “
Dyrges of Elysium” di tre anni fa comprendendo anche il materiale edito come singoli ed EP, è impossibile rimanere delusi o insoddisfatti.
“Profane nexus” è il loro undicesimo lavoro in studio, l’ennesima pietra preziosa di una carriera votata al sentiero della mano sinistra del death metal, ed è uno di quei lavori che trasmettono oscurità e angoscia fin dai primi passaggi.
Definire riuscito il matrimonio fra il riffing tormentato di
John McEntee e l’opera dietro la consolle di quel vecchio marpione di D
an Swanö è riduttivo, ogni nota è riconoscibile, profonda e tagliente, ogni canzone possiede quell’aura maligna che si pretende in un album a nome Incantation, trasmettendo un semplice messaggio: non cercate speranza, luce o gioia. Non ne troverete.
Ed in questo viaggio nell’Abisso la band ci porta in preferibilmente in territori death-doom, senza sentire il bisogno di correre per 40 minuti, bensì rallentando con sapienza, soffocandoci secondo dopo secondo, puntando su sensazioni disturbanti (in questo senso valga l’ascolto di
“Incorporeal despair”).
Punti di forza del lotto? A mio avviso l’opener “
Muse”, la pesante “
Visceral hexaherdon”, la varia e schizzoide “
Lux sepulcri”, l’apocalittica “
Omens to the altars of onyx” meritano un encomio particolare anche se, ripeto, è l’intero lavoro a funzionare nella sua interezza.
Come non poter cogliere la bellezza dell’oscurità?
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