33 anni di carriera (compresi 8 anni di stop dal 1990 al 1998), 11 album in studio, centinaia di concerti, ma i
Necrodeath di appendere gli strumenti al chiodo non ne vogliono proprio sapere! E meglio così, aggiungerei io, finchè continueranno a pubblicare album estremi e micidiali come quest’ultimo “
The age of dead Christ”, di sicuro il loro disco più violento, nudo e crudo da moltissimi anni a questa parte.
Se è vero, infatti, che dalla reunion del 1998 i nostri hanno sempre pubblicato album ora più ora meno maligni ma sempre al passo coi tempi, in questo caso possiamo parlare di un vero e proprio ritorno al passato antico, e possiamo considerare questo disco come il naturale successore di “
Fragments of insanity”. Non parlo di produzione, ovviamente, che pur essendo scarna ed essenziale è comunque figlia dei giorni nostri, ma dell’atmosfera che i brani sprigionano e dell’approccio compositivo della band.
I brani sono tutti violentissimi e di media durata, c’è spazio per respirare un po’ soltanto in qualche occasione, ogni singolo riff ed ogni singolo arpeggio sprigionano malvagità e non ho difficoltà ad affermare che stiamo parlando del loro miglior album dai tempi dei micidiali “
Mater of all evil” e “
Black as pitch” e al pari del recente “
The 7 deadly sins”, dove già si iniziava ad intuire la strada che avrebbero poi preso con questo ultimo disco.
Pier Gonella si è ormai integrato bene all’interno del gruppo, e anche se io continuo a considerarlo in parte fuori contesto nei
Necrodeath, dimostra di aver imparato bene la grande lezione impartita da
Claudio, coadiuvato anche dal buon
Peso in fase compositiva, da sempre principale motore della sua creatura. Non sono invece riuscito, questa volta, ad apprezzare fino in fondo il lavoro svolto da
Flegias, che ho sempre considerato un ottimo screamer, in quanto le sue interpretazioni, paradossalmente, se si pensa a quanto fatto in passato, non sempre risultano malvagie tanto quanto le parti strumentali. Ho trovato la sua voce spesso un po’ troppo asciutta e meno interpretativa del solito, e non so ovviamente se si tratta di una scelta voluta o è soltanto una mia impressione.
Ad ogni modo l’album parte in quarta con la ferale “
The whore of Salem”, violentissima, che ovviamente non è l’unico cazzotto in bocca che ci tirano i nostri. “
The revenge of the witches”, “
The crypt of Nyarlathotep” e “
The master of mayhem”, giusto per citarne qualcuno, non sono certo da meno, così come particolarmente maligno risulta il mid tempo “
The triumph of pain”. Discorso a parte per la titletrack, posta giustamente in chiusura, classico pezzo dove i nostri danno il meglio, arcigno, con un’atmosfera malatissima, lento ma maligno all’ennesima potenza. A sottolineare, invece, il legame col passato del quale parlavo in apertura, ecco arrivare “
The return of the undead”, che non è altro che la riproposizione della loro vecchia e storica “
The undead”, presente originariamente sull’album di esordio “
Into the macabre” e che vede come special guest niente meno che
A.C. Wild, mitico cantante degli altrettanto mitici Bulldozer, che dà vita ad un infernale duetto con
Flegias.
Sono sicuro che questo album farà storcere il muso a più di una persona, come era accaduto in parte per “
The 7 deadly sins”, e vi assicuro che nel caso specifico se non avete amato l’indurimento del sound iniziato con il precedente disco a discapito delle semi sperimentazioni presenti in alcuni album della prima decade dei 2000 rimarrete ancora più delusi, in quanto “
The age of dead Christ” è un concentrato di thrash/black che non lascia scampo e non lascia spazio ad influenze esterne. L’obiettivo era quello di distruggere tutto e fidatevi se vi dico che ci sono riusciti in pieno, mettendo su un album che non lascia feriti, che uccide dalla prima all’ultima traccia.