Copertina 7,5

Info

Anno di uscita:2018
Durata:54 min.
Etichetta:Frontiers Music

Tracklist

  1. BROTHER IN ARMS
  2. STRANGE DAYS
  3. AMOR VINCIT OMNIA
  4. TIME WAITS FOR NO ONE
  5. A SORROW’S CROWN
  6. FOURTH OF JULY
  7. SEASONS WILL CHANGE
  8. GIVE ANOTHER REASON

Line up

  • John Payne: vocals, bass, guitars
  • Erik Norlander: keyboards
  • Jeff Kollman: additional guitars
  • Guthrie Govan: additional guitars
  • Moni Scaria: additional guitars
  • Bruce Bouillet: additional guitars
  • Jay Schellen: drums

Voto medio utenti

Difficile, se vi considerate estimatori di Asia, GPS e Lana Lane, non trepidare per l’esordio dei Dukes of the Orient, band in cui John Payne ed Erik Norlander uniscono le loro forze per arricchire ulteriormente il versante “progressivizzato” e pomposo del rock melodico.
Nata nel 2007 come Asia Featuring John Payne (il monicker sarà poi cambiato anche per rispetto al compianto John Wetton) e supportata da musicisti del calibro di Jay Schellen (World Trade, Unruly Child, Hurricane, GPS), Jeff Kollman (Glenn Hughes, Edwin Dare), Guthrie Govan (Docker’s Guild, Steve Wilson, The Aristocrats, GPS), Moni Scaria (Joey Vera, WWIII) e Bruce Bouillet (Racer X, The Scream, Paul Gilbert), la formazione sforna un dischetto che inevitabilmente riaprirà vecchi dibattiti tra i fans degli Asia (molti dei quali non hanno mai metabolizzato completamente la versione della band con Payne) e, d’altro canto, farà la felicità di chi reputa “Aqua” un capolavoro del settore.
Poiché sono un ammiratore di entrambe (sebbene con una particolare predilezione per quella originale …) le configurazioni del supergruppo britannico, mi sento di affermare che “Dukes of the Orient” è un lavoro encomiabile per intensità e forza espressiva, che la voce di John è sempre emozionante al pari delle tastiere rigogliose di Erik, ma contemporaneamente mi vedo costretto ad ammettere di non poterlo considerare pienamente all’altezza delle mie aspettative.
Ora, “criticare” un albo che comunque garantisce un bel numero di scosse emotive può sembrare addirittura pretenzioso, eppure la mia sensazione è che qualcosa non abbia funzionato pienamente in una partnership dalle pressoché inesauribili potenzialità.
Esclusa per ovvie ragioni la questione prettamente “tecnica”, non rimane che imputare tale suggestione a una fase compositiva un po’ precaria, talvolta priva della necessaria “scintilla” e incapace, per esempio, di dare lo slancio decisivo a un brano “solo” molto intrigante come “Brother in arms”.
Strange days”, con la sua atmosfera vagamente alla Magnum, piace senza strabiliare e lo stesso effetto lo ottiene “Amor vincit omnia”, seppur intrisa di melodramma e di un notevole pathos.
Stupore (almeno un po’ …) che invece arriva con “Time waits for no one”, una "specie" di fusione (estremizzando "leggermente" i termini della faccenda, eh…) tra The Cardigans e Yes ottantiani dagli esiti abbastanza contraddittori, seguita da una magniloquente “A sorrow’s crown” ancora una volta ostacolata da una lieve patina di manierismo. Tocca alla brillante “Fourth of July” risollevare le sorti di una raccolta che in dirittura d’arrivo piazza lo splendore Asia-tico di “Seasons will change” e le caleidoscopiche progressioni di “Give another reason”, in grado finalmente di esaltare le doti innate di musicisti abilissimi nell’assoggettare perizia ed estro alla “forma canzone”.
Si può essere al tempo stesso infatuati e disillusi di fronte all’opera di artisti di cui si ha grande stima? Per quanto mi riguarda, “Dukes of the Orient” ha conseguito questo “strano” risultato, rafforzando la convinzione che a volte nemmeno dosi imponenti di “storia”, talento e classe sono sufficienti per ottenere un centro pieno.
Recensione a cura di Marco Aimasso

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Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 25 feb 2018 alle 19:19

per me c'è un punticino di troppo.. non mi hanno convinto gli arrangiamenti "ultra-seventies" di Norlander su brani così patinati..

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