Devo dire che negli ultimi anni raramente mi capita di attendere un album con spasmodica attesa, salvo ormai per quei 4 o 5 nomi storici con i quali sono cresciuto e che fanno parte del mio DNA. Come avrete capito è stato questo uno dei casi, e come potrebbe essere altrimenti? Questa volta la
Epic Records ha attuato una politica di promozione impeccabile, blindando l’album fino alla sua uscita, e stuzzicando i fans con piccoli assaggi dati in pasto con parsimonia, per cui la voglia di ascoltarlo per intero era davvero molta, anche perché per quel poco che si era potuto intuire, le condizioni per un ottimo disco c’erano tutte.
Le aspettative con le quali mi sono messo all’ascolto, quindi sono state altissime, e fortunatamente non sono state deluse, anzi, posso affermare tranquillamente che con “
Firepower” ci troviamo senza ombra di dubbio davanti al miglior album dei
Judas Priest dai tempi del mitico “
Painkiller”, e una spanna più in alto del pur ottimo “
Redeemer of souls”, che aveva l’unico difetto di avere una produzione veramente pessima. In questo caso, invece, l’accoppiata
Andy Sneap/
Tom Allom ha fatto un ottimo lavoro, per fortuna, dando di nuovo dignità a quanto composto dalla band.
Ma bando alle ciance e andiamo ad analizzare l’album nel dettaglio… L’opener “
Firepower” mette in chiaro le cose fin dal primo riff, veramente incalzante, seguito dal solito
Halford in forma strepitosa: i Judas sono tornati e sono più in tiro che mai. Ed è proprio il singer a fare la differenza questa volta, meglio metterlo in chiaro fin da subito. La sua prestazione è poderosa ma al tempo stesso misurata e mai eccessiva, non cerca di andare oltre le sue possibilità, e visto che ormai ha la bellezza di 66 anni direi che si è trattato di una scelta vincente. Ma la cosa che colpisce di più è come sia riuscito a trovare delle linee vocali e dei refrain assolutamente azzeccati, memorizzabili ma mai banali, e soprattutto assolutamente inseriti nel mood del brano. La successiva “
Lightning strike” era già stata resa nota, e come detto quando ho ascoltato il singolo, colpisce per la semplicità e la bellezza del refrain, che ti cattura al primo ascolto, un pezzo in pieno
Priest style, senza dubbi.
Si prosegue con “
Evil never dies”, aperta da un riff rocciosissimo, e ancora una volta
Halford sfodera un ritornello micidiale che ci riporta indietro a metà anni ’80. Molto bello anche l’intermezzo, particolarmente oscuro. E per rimanere in tema, molto eighties è anche il pezzo successivo, “
Never the heroes”, anch’esso già edito, che non avrebbe sfigurato su un album come “
Turbo”, visto il suo andamento e il suo mood generale. “
Necromancer”, invece, è forse il brano più grintoso ed aggressivo dell’album, qui si parla di tre minuti di potenza pura (ai quali manca però un chorus d’effetto), con
Halford incazzatissimo, prima che arrivi un altro pezzo da novanta di “
Firepower” e cioè “
Children of the sun”. Mi dispiace dovermi ripetere, ma a fare la differenza ancora una volta è il buon
Rob, senza voler sminuire in nessun modo l’ottimo lavoro svolto da
Tipton e
Faulkner in fase di riffing e di assolo. Ascoltate la sua prestazione e non potrete far altro che darmi ragione, il ritornello ti si ficca in testa con prepotenza e non ne esce più.
A questo punto accade una cosa strana ma al tempo stesso prevedibile, “
Guardians”, un breve intermezzo strumentale, che mi ha ricordato moltissimo le sonorità di “
Sad wings of destiny”, funge da spartiacque tra la prima e la seconda parte del disco, e dà conferma a quanto avevo immaginato nel momento in cui ho visto che erano ben 14 le tracce presenti. Nell’ipotetico lato B, come direbbero i nostalgici, si avverte un leggero calo rispetto al lato A. Non parliamo certo di brani brutti, ma è evidente come i nostri abbiano sparato le cartucce migliori con i primi 6 pezzi. Forse levandone un paio in questa seconda parte, l’album ne avrebbe giovato, e invece dell’attuale 7,5 sarei arrivato senza problemi ad un 8 pieno.
Ci sono comunque un altro paio di episodi notevoli, e cioè “
Traitors gate”, che ha un riff micidiale e un ritornello incalzante, e “
No surrender” ruffianissima e assolutamente eighties, mente un po’ sottotono risultano essere “
Spectre”, “
Flame thrower” e “
Lone wolf”, che si trascinano un po’ stancamente fino alla fine. Ripeto, presi singolarmente non sono affatto brutti pezzi, ma sfigurano un po’ rispetto a quanto ascoltato prima. “
Rising from ruins”, invece, è un brano cadenzato che si risolleva alla grande, manco a dirlo, nel momento del ritornello, incredibilmente epico. Discorso a parte merita la conclusiva “
Sea of red”, che mi ha catapultato ai tempi di “
Stained class”, col suo incedere cupo e mesto, davvero un gran pezzo.
Se questo dovesse essere, come prevedibile, visti anche i problemi di salute del povero
Tipton, il canto del cigno della band, direi che i nostri usciranno di scena assolutamente a testa alta con un album, il diciottesimo, che va a coronare una carriera incredibile. Nulla da rimproverare, se non, come già fatto notare, un paio di filler che avrebbero alleggerito l’ascolto e reso il tutto quasi perfetto. Ma tutto sommato sono difetti trascurabili visto il valore generale del disco.