Due anni fa uscì
Belfry, l’album di debutto di una band (allora) sconosciuta, i
Messa. Affascinato dall’iconica copertina, e incuriosito dalla
recensione del buon Marco Pezza, decisi subito di acquistare l’album a scatola chiusa, come si faceva una volta. Quando mi arrivò il vinile a casa mi ritrovai tra le mani un album a dir poco strepitoso, che tutt’ora riascolto con immenso piacere. Questo preambolo per farvi capire che quando ho scoperto che i nostri stavano per pubblicare il suo successore, subito mi sono mobilitato per accaparrarmi la recensione, e quindi eccomi qui…
Perché dico che i
Messa sono strepitosi? Semplice, perché nel marasma generale di band fotocopia i veneti hanno un’immensa personalità che traspare da ogni singola nota dei loro lavori in studio. Capacità compositive non comuni si uniscono ad un gusto armonico incredibile, oltre che ad una perizia tecnica non indifferente. Ma non sono certo questi gli aspetti peculiari del loro sound, in fondo sto parlando fin’ora di caratteristiche comuni a decine di band. La cosa che mi appassiona e al tempo stesso stupisce di più, è la loro assoluta capacità di emozionare l’ascoltatore, il tutto utilizzando soluzioni che non ho problemi a definire minimali. Ogni brano non è mai esagerato, ogni strumento è sempre ben dosato e inserito solo quando è il caso di farlo. I nostri non hanno bisogno di puntare tutto sui chitarroni distorti (che comunque sono presenti) o sulle solite abusate melodie, perché quando uno sa cosa sta facendo può farlo anche con poche note messe al punto giusto.
Come si arriva a tutto ciò? Con tanta sapienza musicale, e soprattutto con il coraggio di osare. La definizione doom metal, infatti, secondo me sta stretta ai
Messa. Se è vero che questo è l’ambito di riferimento entro il quale i nostri si muovono, e le trame cupe che tessono sono qui a dimostrarlo, è altrettanto vero che le influenze che arricchiscono il loro sound sono molteplici, a partire da quelle più seventies, che si mescolano senza soluzione di continuità a sperimentazioni più moderne (Ulver), senza dimenticare un certo gusto melodico tutto italiano e l’utilizzo di strumenti poco convenzionali in ambito metal, come il sassofono che viene sapientemente inserito in “
Tulsi”. Se a tutto ciò aggiungiamo la stupenda voce eterea di
Sara, che riesce con grande classe ad arricchire ogni singolo passaggio, potete ben capire che ci troviamo di fronte a musicisti di un altro livello.
L’alternarsi di pause, a volte quasi silenzi, a parti più vigorose, tiene sempre alto l’interesse dell’ascoltatore, che non sa mai cosa potrà succedere di lì a pochi secondi. E pensare che il primo brano vero “
Snakeskin drape” mi aveva leggermente deluso, troppo lontano dallo stile del gruppo, troppo moderno rispetto a quanto ci avevano abituati a sentire. Per fortuna dalla successiva e stupenda “
Leah” le cose riprendono il proprio corso ed è un susseguirsi di emozioni enormi, che proseguono nella già citata “
Tulsi”, nella lentissima “
She knows” e culminano nella struggente strumentale “
Da tariki tariqat”, che mette il sigillo ad un album a dir poco stupendo.
A livello emozionale forse gradisco leggermente di più il debutto, ma razionalmente non posso che affermare che questo nuovo “
Feast for water” è una spanna più su a livello compositivo, ed è sicuramente molto più maturo del precedente. Ci riconsegna una band in crescita esponenziale, che se continuerà a maturare con questa assurda velocità ci farà ascoltare una serie di capolavori che resteranno impressi nella storia del doom mondiale. Quello che manca ora è un vero e proprio salto fuori dai confini nazionali, perché le band che vanno avanti senza un reale valore artistico sono tantissime, troppe oserei dire, lasciare che questo non accada a chi veramente lo merita sarebbe veramente un errore madornale, oltre che un vero e proprio sacrilegio…