Era il 1986 quando
Tim Bowness fondava i
Plenty, trio figlio della new wave e del post-punk con cui non avrebbe fatto in tempo a incidere nulla per concentrarsi da subito sui No-Man con l'allora sconosciuto
Steven Wilson.
A 30 anni di distanza
Bowness ha pensato di rimettere mano a quei provini "dimenticati" e registrarli una volta per tutte con i compagni di avventura del tempo. Quello che ne esce è il qui presente
"It Could Be Home", album di puro "Bowness-sound" per quanto ancora embrionale e, a tratti, immaturo.
A prevalere sono le atmosfere soffuse e depresse di scuola Talk Talk a cui l'artista inglese ci ha abituati da anni (penso alla minimale ma ricercata
"As Tears Go By", alla più dinamica
"Hide", a
"Strange Gods" o alla lisergica
"Every Stranger's Voice". I toni si alzano raramente (
"Broken Nights" e
"Climb" rimandano a Joy Division e New Order), mentre è palpabile un certo gusto kraftwerkiano e simil-progressivo in certe timbriche e in taluni arrangiamenti (
"Never Needing" ha il retrogusto dei King Crimson degli Anni Ottanta,
"The Good Man" rievoca
"Computer Love" e affini). A emergere per contrasto sono
"Foolish Waking", episodio più vicino alla lounge music che ad altro, e la titletrack, molto più vicina a certo pop contemporaneo meno nostalgico.
Fan di
Tim Bowness fatevi sotto, per tutti gli altri non sarà di certo
"It Could Be Home" a farvi cambiare idea sull'artista britannico.
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