Ci avevano “spaventato” con uno
split che rischiava di privare la scena dell’
hard classico di uno dei suoi principali protagonisti, poi ci hanno fortunatamente ripensato, ripresentandosi dopo una breve pausa con un nuovo batterista (
Oskar Bergenheim) e la rinnovata necessità di fornire la loro versione dei “fatti”, ben consapevoli che competere con i numi ispiratori della
band è pressoché impossibile e si può solo cercare di fare tesoro di quegli insegnamenti così preziosi.
Riconquistata la “pace” tra le proprie fila, ora i
Graveyard sono chiamati all’arduo compito di proseguire nello scintillante percorso di “restaurazione” della
Storia del Rock sviluppato nelle prove precedenti, ed ecco che “
Peace” rassicura fin dall’atto d’apertura tutti gli estimatori degli svedesi, che ritroveranno nelle sue note vibranti quella carica primordiale che raramente si avverte così intensa nei tanti contendenti contemporanei al trono di categoria.
“
It ain't over yet” è una catartica e luminosa dichiarazione d’intenti capace di abbagliare la concorrenza e di dimostrare ancora una volta come i nostri sappiano affrontare con inusitata tensione espressiva la nobile materia, scuoiandola e indossandola quasi come una seconda pelle, adattata alla propria personalità senza forzature e sterili reiterazioni.
Tanta energia, dunque, ma anche una speciale propensione per i suoni avvolgenti del
blues, che in “
Cold love” conducono l’astante in una magnetica spirale emotiva, mentre la liquida e diafana “
See the day” svela la passione dei
Graveyard per i
sixties, evocati in una ballata di grande suggestione.
Il
groove titanico di “
Please don't” riprende a picchiare sodo sui sensi e se “
The fox” sconta appena un pizzico di manierismo di marca Thin Lizzy-
esca, “
Walk on” cancella immediatamente ogni perplessità conficcandosi nella memoria con il suo pulsante ed euforizzante
pathos sonico, in grado di combinare in maniera creativa Cream, Black Sabbath e
Hendrix.
Il tocco vagamente Doors-
iano della torpida “
Del manic” offre un’altra sfumatura emozionale di un programma che con “
Bird of paradise” celebra nuovamente l’inattaccabile arte del mancino di Seattle, e con la terremotante “
A sign of peace” e la scalciante e torrenziale “
Low (I wouldn't mind)” continua imperterrito a esibire efficaci e credibilissime interpretazioni di temi “familiari”.
Chi temeva un “ritorno” poco ispirato, può tranquillamente tirare un sospiro di sollievo e unirsi al sottoscritto in un caloroso “
bentornati Graveyard" … la vostra musica continua a essere la prova tangibile che tradizione e vitalità possono felicemente convivere e per tutti quelli che l’hanno sempre sostenuto con tenace convinzione, questa è senz’altro una splendida notizia.