A questo mondo –per fortuna- tutto è opinabile, ma all’interno della mia piccola galassia mentale costellata di dubbi registro, per una volta, una certezza incrollabile: il giudizio maturato nei confronti di “
All Is Phantom”, opera prima dei
Ghostbound.
Un
6,5 incontrovertibile, frutto di un bilancio comunque positivo tra spunti degni di nota e passi falsi.
Annovererei nella prima categoria una miscela sonora oltremodo eclettica: si potrebbe coniare la definizione composita
post-avant-blackgaze-gothic-new wave rock/metal; si potrebbe azzardare un
melting pot sonoro che unisca
Anathema, Panopticon, Talk Talk, Opeth, The Smiths, As Light Dies, Nick Cave ed
Agalloch… sta di fatto che, comunque la s’intenda inquadrare, ci troviamo di fronte ad un coacervo piuttosto ben amalgamato e ricco di influenze affascinanti.
Compendiano un cotale stuolo di sonorità melodie ordite con gusto (“
The Wildest of Rivers”
in primis) e partiture talvolta tristemente solenni (il crescendo della conclusiva “
Goodbye”) talvolta ammantate di delicata malinconia (“
Earthen Ground”), senza rinunciare a qualche scorribanda (“
Roof and Wall”) nel lato oscuro –a cui consiglio di cedere più spesso in futuro-.
Aiutano inoltre la causa
lyrics per nulla banali o stereotipate e arrangiamenti ricchi ma mai ridondanti, capitanati dalle scorribande del violoncello di
Valeriya Sholokhova e del violino di
Natalia Barnaby Steinbach.
Peccato che, a fungere da contraltare, si registrino alcune
défaillances compositive: è il caso di “
(I Will) Keep My Dreams Inside”, che si trascina senza sussulti significativi, e delle non imbattibili strumentali “
Intermezzo” e “
It Goes Away”.
Non mancano, poi, i balbettii esecutivi: la voce –sempre in
clean- di
Alec A. Head (anche principale
songwriter) denuncia pecche di intonazione –soprattutto in “
Night Time Drowning”- e più in generale di coloritura della timbrica, mentre il
drumming del
session David Richman troppo di rado lascia il segno.
Un breve cenno, da ultimo, sugli inciampi tecnici: penso al bell’affresco sonico dell’
opening track, purtroppo sfregiato da un
mixing che chiude gli strumenti in un barattolo di timidezza, e ad una produzione (opera di
Jesse Cannon e
Mike Oettinger) tanto organica quanto opaca.
Mi piace pensare che la maggior parte di tali criticità possa essere catalogata alla voce “peccati di gioventù”: in fondo, parliamo di una compagine all’esordio discografico, fondata solamente nel 2013, cui è doveroso accordare corposi margini di miglioramento.
Senza contare che, come si diceva in apertura, tutto è opinabile, ed in effetti sulla rete si sprecano opinioni contrastanti:
metal-archives ha sdegnosamente chiuso i porti (tanto per rimanere sull’attualità) al trio statunitense poiché “non abbastanza metal”, mentre altrove si legge di un mezzo capolavoro o, alternativamente, di una pretenziosa ciofeca.
Per quanto mi riguarda, la verità sta nel mezzo.
Bagliori in casa
Ghostbound, ad ogni modo, già s’intravedono; i mezzi per costruire un domani radioso ci sono.
Attendiamo speranzosi…
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