Faccio spesso notare, all'interno delle mie rece, che c'è in atto un vero e proprio fermento nell'underground, un ritorno importante di sonorità classicamente metal, sonorità ottantiane, a volte epiche, a volte doomeggianti, altre veloci come una frustata. Se seguite a fondo il genere e non vi limitate ai soliti nomi lo saprete benissimo, se non ne eravate a conoscenza fareste meglio a svegliarvi perché negli ultimi anni stanno uscendo cose davvero notevoli.
Sull'onda di questo revival, gli Stati Uniti hanno sparato diversi colpi importanti e la
Shadow Kingdom Records si dimostra attenta a supportare questa scena fatta di denim and leather 2.0.
Gli
Haunt (dalla California) sono tra gli ultimi arrivati in questo "festival del passato che ritorna" ed hanno esordito alla fine del 2017 con un EP (
Luminous Eye) dal look e dai contenuti davvero retrò, che lasciavano intravedere buone idee ma con qualche aggiustamento da fare, soprattutto sul fronte del cantato.
Ad un anno di distanza, la band torna con il primo full length, vero banco di prova delle proprie capacità. Ho parlato finora di "band" ma per essere più preciso dovrei parlare di
Trevor William Church (figlio del bassista dei Montrose,
Bill Church ed elemento principale della doom band Beastmaker) che compone tutti i pezzi, li suona e li canta. Diciamo che le sue abilità di chitarrista sono quelle che spiccano nella proposta degli Haunt, non tanto perché
Trevor sia un virtuoso ma perché riesce a trovare sempre riff interessanti, assoli misurati e strutture semplici per fare funzionare le sue canzoni, il resto degli strumenti fa semplicemente da contorno, da accompagnamento, pur rimanendo ben udibile ed al giusto posto.
Il metal classico regna su "
Burst Into Flame" e la patina NWOBHM ricopre tutto andandoci a trasportare su un palco tra Angel Witch, Praying Mantis, gli immancabili Priest e Maiden a cui aggiungerei un pizzico dei conterranei Shok Paris. Le canzoni scorrono una in fila all'altra senza sussulti, senza picchi di velocità, assestandosi anzi su comodi mid tempo ma con melodie davvero trascinanti, buone armonizzazioni e la sensazione generale è quella che non siano pezzi composti per scuoterti, per colpirti a fondo ma quasi per accarezzarti ed accompagnarti in modo grintoso ma leggiadro in un viaggio. Nel tempo? Nello spazio? Chissà. Questa sensazione, oltre che al taglio sonoro dato al disco - in cui non troviamo bassi pompati, compressioni esasperate, trigger- è dovuta al modo di cantare di
Trevor che, lo riconosco, può benissimo non piacere. Non ci sono acuti, l'interpretazione è sempre sulla stessa tonalità, quasi dolce, gentile, non graffia mai, quasi ai limiti del pop. Sicuramente con un cantante dotato avrebbero raggiunto ben altri risultati.
Al netto di quanto sottolineato a livello vocale, bisogna ammettere che
Burst Into Flame si ascolta e riascolta con gran piacere, le sue linee melodiche si ficcano in testa e ti ritrovi a fischiettare certi passaggi alla cassa del supermercato, dopo pochi ascolti. Certo, se ci fosse qualche accelerazione, una costruzione un attimo diversa, un minimo di varietà in più all'interno dei pezzi sarei certamente più felice ma è pur sempre un debutto. Novità non ne abbiamo (e sinceramente nemmeno le vogliamo) ma 40 minuti di puro heavy ottantiano ben fatto, sí.
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