I
Redemption non mi fanno più gioire come un tempo. E qualcosa di simile lo deve aver provato anche
Ray Alder prima di abbandonare la nave e lasciare il posto a un altro "pezzo da novanta" come
Tom Englund.
L'inizio bello "cafone" vicino agli ultimi
Evergrey (chi l'avrebbe mai detto? ndr) di
"Eyes You Dare Not Meet In Dreams" lascia ben sperare, così come la successiva
"Someone Else's Problem", che spicca per i dosati elementi elettronici. Ma in
"The Echo Chamber" - nonostante l'ottima prova del
guest Simone Mularoni - siamo già in zona di "già sentito", sensazione che si acuirà procedendo nell'ascolto di
"Long Night's Journey Into Day".
Echi di
Dream Theater,
Symphony X,
Fates Warning e
Queensrÿche caratterizzano le successive
"Impermanent" e
"Indulge In Color", mentre le armonie si fanno più spigolose e originali con
"Little Men". La breve - e non particolarmente ispirata - "suicide-track" dal break progressivo
"And Yet" sfocia nell'algida
"The Last Of Me", pregna di tecnica ma altrettanto priva di cuore - almeno alle mie orecchie. Facciamo finta di non aver sentito la cover degli U2
"New Year's Day" (che, per la cronaca, sarebbe un pezzo meraviglioso se non fosse stato stuprato da
Van Dyk e soci) e passiamo alla titletrack conclusiva, dieci minuti e mezzo opachi in cui ho sentito molte idee riciclate dal primo CD di
"Six Degrees Of Inner Turbulence".
C'è chi accoglierà con entusiasmo questo lavoro, ne sono certo, ma è da
"This Mortal Coil" che i
Redemption si accontentano di "riscaldare la minestra" (e, a posteriori, credo di essere stato fin troppo clemente già con il precedente
"The Art Of Loss"): è così disdicevole pretendere qualcosa di più?
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