La notizia dell’imminente ritorno (previsto per ottobre, a quasi venticinque anni da “
For the love of strange medicine” …) del divino
Steve Perry, oltre a causarmi un’inusitata forma di trepidazione, mi ha anche indotto a rintracciare, nel “caos cosmico” della mia collezione discografica, il suo debutto da solista, che, lo ammetto, ai tempi dei primi contatti, mi destò non poche perplessità.
Da un semplice “riascolto” a una recensione retrospettiva da affidare alla
webzine più
gloriosa del globo terracqueo il passo, per un grafomane compulsivo come me, è breve, anche perché sento di dovere delle “scuse” pubbliche a “
Street talk” e al suo autore che, per la cronaca, considero il sovrano assoluto della fonazione modulata in campo
Adult Oriented Rock.
A parziale discolpa lasciatemi dire che arrivare dopo due capolavori dei Journey del calibro di “
Escape” e “
Frontiers” non era un’impresa per niente facile, e che il suo taglio
pop n’ soul, sebbene inserito in un’ottica tipicamente
AOR, finì per non consentirmi di apprezzarlo fino in fondo, relegandolo per troppo tempo tra i dischi “belli” ma non entusiasmanti.
Un errore, sicuramente, perché nonostante l’indiscutibile “leggerezza”, tra questi solchi risiede una forza espressiva prodigiosa e si sublima la voglia di un artista enorme di scandagliare gli aspetti più melodici e soffusi del suo
songwriting e delle sue immense capacità vocali.
E allora, prima di addentrarci nei contenuti specifici del programma, inquadriamo brevemente il “contesto storico” dell’opera … 1984, appena concluso il tour di supporto a “
Frontiers”, i Journey decidono di prendersi una non meglio precisata “pausa di riflessione”, concedendo a due dei pilastri della
band di dedicarsi alle loro velleità “parallele”.
Così, se
Neal Schon dà vita agli
HSAS (con
Sammy Hagar,
Kenny Aaronson e
Michael Shrieve … e credo anche il loro “
Through the fire” meriti una doverosa riscoperta …), “
The Voice” (come lo definì
Jon Bon Jovi …) sceglie di avviare una carriera “in proprio” assoldando un manipolo di eccellenti professionisti dello strumento musicale (con alcuni di loro, come
Randy Goodrum,
Craig Krampf e
Bill Cuomo, che contribuiscono anche alla scrittura dei brani).
L’albo conquista un grande successo di pubblico e critica, grazie alla classe innata di un
Perry capace di non perdere una stilla della sua eccelsa classe anche in un contesto maggiormente
mainstream.
Una valutazione cui il sottoscritto giunge pienamente, come anticipato, nella sua maturità e che gli permette di considerare “
Oh Sherrie” (dedicata a
Sherry Swafford, all’epoca compagna del cantante) una deliziosa ballata romantica, “
I believe” un gagliardo omaggio ai campioni del
R&B e "
Foolish heart” una suggestiva
promenade notturna tra i vellutati vicoli delle sette note.
Scampoli della magnificenza della “navicella madre” rivivono in brani come “
Go away”, “
She's mine”, “
You should be happy” e “
Running alone” e se la vivace “
It's only love” sfoggia addirittura barlumi
calypso, “
Captured by the moment” induce a momenti di nostalgia e riflessione e “
Strung out” trasmette all’astante un’appassionante tipologia di raffinata spensieratezza, un po’ alla maniera di un altro indiscusso protagonista del settore,
Mr. Bryan Adams.
“
Street talk” rappresenta, dunque, un passaggio assai importante (il suo approccio espressivo avrà ripercussioni anche nel successivo capolavoro dei Journey, “
Raised on radio”) nella parabola artistica di
Steve Perry e, saldato il mio “debito morale” nei suoi confronti, mi auguro di cuore possa essere riscoperto da quella parte dei nostri lettori che sa ancora riconoscere, indipendentemente dal “genere”, la straordinaria bellezza di un’emozione.
Ah, beh, superfluo a questo punto ribadire quanto l’attesa per il nuovo “
Traces” sia davvero spasmodica …