Otto anni fa le principali riviste specializzate diedero una certa attenzione ad un gruppo di ragazzini tedeschi dediti ad un power metal di ispirazione helloweeniana, che avevano appena fatto uscire il loro terzo disco col titolo di “Vain glory opera”. Quel gruppo si chiamava ovviamente Edguy, e il sottoscritto rimase letteralmente folgorato dal tema portante della title track, così come dalle altre canzoni, scrivendone un gran bene sulla misera fanzine per la quale collaborava all’epoca.
Quello era davvero un bel lavoro, scritto e suonato alla grande, e mostrava una maturità e una freschezza assolutamente non comuni per una band così giovane, nonostante fossero già al terzo disco (e i due precedenti non fossero affatto male!).
Nonostante tutte queste qualità, credo che nessuno (certamente non io!) si sarebbe aspettato, in un’epoca di folle concorrenza tra le bands di quel genere, di dover recensire ad inizio 2006 un nuovo disco degli Edguy come una delle uscite più importanti e attese di questo anno metallico.
Eppure la band di Fulda ha non solo confermato le belle cose mostrate agli esordi, ma è cresciuta a dismisura album dopo album, concerto dopo concerto, arrivando ormai a rappresentare nel cuore dei fans una delle punte di diamante della scena metal europea e non solo.
“Rocket ride” arriva a meno di due anni di distanza da “Hellfire club”, il disco del passaggio alla Nuclear Blast, e ci mostra una band ancora una volta in palla, capace di scrivere ottime canzoni, di divertirsi e far divertire. E probabilmente è tutto qui il segreto di un successo che si annuncia certo anche con questo ultimo lavoro: gli Edguy si divertono a fare quello che fanno e non ci pensano neanche troppo su, come mi ha confermato lo stesso Tobias Sammet nella chiacchierata che abbiamo fatto di recente. Se il metal è intrattenimento, energia positiva, prima ancora che la disperata e paranoica soddisfazione di uno stereotipo, si capisce perfettamente la vera forza di “Rocket ride”, un lavoro che non ridefinisce nessuna coordinata stilistica, non stupisce con nessuna innovazione inaspettata, ma ci regala semplicemente un’ora di ottima musica, né più né meno di quanto questa band ci aveva abituato nel corso di questi ultimi anni.
Va da sé che le loro abilità in fatto di songwriting sono senza dubbio sopra la media: non per niente Tobias Sammet ha fatto fuoco e fiamme con “Avantasia”, (il lavoro che forse più di quelli della sua band madre lo ha rivelato al grande pubblico), ma è inevitabile affermare che sta proprio in questa scarsa preoccupazione di ciò che accadrà, in questo disincanto totale tipico di chi è convinto della bontà della propria proposta, il segreto del loro continuo progredire.
Parlando in termini più strettamente musicali, iniziamo subito col dire che rispetto ai due lavori precedenti “Mandrake” e “Hellfire club”, quest’ultimo è più solare e meno serioso, recuperando in pieno quella componente giocosa e solare che si era a mio parere un po’ persa per strada ultimamente. Questo lo si vede non solo dalla copertina, ma anche dai suoni delle chitarre, che sono questa volta molto meno pesanti, e dall’impiego di soluzioni differenti nei vari episodi, che spesso mostrano parti acustiche e nel complesso meno aggressive (soprattutto nelle strofe dei brani).
Le canzoni, come facile intuire, sono sempre quelle: si va dall’immediatezza irresistibile della title track (uno dei più bei refrain mai composti dal buon Tobi!), “Wasted time”, “Out of vogue” (il pezzo più Edguy di tutto il disco) o “Return to the tribe”, alla solenne drammaticità di “Sacrifice” e “The asylum”, due suite da otto minuti l’una, ricchi di atmosfere e sensazioni differenti, in cui riecheggiano le migliori atmosfere di Avantasia, pur con le dovute differenza stilistiche.
Come da tradizione, anche in questo disco c’è una ballad, “Save me”, che è una delle più belle mai scritte da questa band: un brano che, a differenza di episodi quali “Scarlet rose”, “Sands of time” o “Land of the miracle”, col metal c’entra poco, andando piuttosto ad abbracciare la dimensione dell’aor/pop. Ok, detta così potrebbe sembrare uno scandalo, ma sentitevela con attenzione e sappiatemi dire.
L’impressione è davvero che questa sia una band dalla personalità talmente forte da potere osare qualunque cosa: sentitevi la conclusiva “Trinidad”, song dalle marcate atmosfere caraibiche, che sembra fatta apposta per riprendere il discorso esilarante di “Lavatory love machine”. Oppure ancora, la bellissima “Fucking with fire”, qui presente come bonus track, che rilegge in chiave metal le sonorità dei Bon Jovi di “Slippery when wet”!
Sacrilegio? Insulto ad ogni defender che si rispetti? Schizofrenia stilistica? Niente di tutto questo, a mio parere: semplicemente una band genuina e sincera con se stessa!
Solo il tempo potrà dirci se davvero gli ex ragazzini tedeschi meriteranno un posto tra i grandi dell’heavy metal. Per ora, l’unica cosa da fare è procurarsi “Rocket ride” e spararlo a tutto volume sul vostro stereo!
Post Scriptum: Ascoltare un disco del genere con un fastidiosissimo sottofondo che ti ricorda in continuazione che “you are listening to the new Edguy album” (grazie, non sono ancora diventato arteriosclerotico!) è un insulto al mondo della musica! Sarà anche coraggioso il tentativo della Nuclear Blast di non farsi “piratare” anzitempo, ma scommettiamo che il disco sarà già in rete nel momento in cui uscirà questa recensione? Un saluto solidale a Sergio, che si era già subito la vocina irritante in “Superheroes”!