Cosa mancava ai
Lioncage per scrollarsi di dosso il poco gratificante ruolo di eccellenti “gregari” della scena melodica contemporanea?
Un pizzico di maggiore personalità e, soprattutto, delle canzoni migliori, in grado di emozionare in maniera più profonda e duratura di quanto già fatto nei precedenti, godibili, "
Done at last“ e “
The second strike”.
Ebbene, se sotto il profilo del carisma non sono apprezzabili significativi passi in avanti, in questo “
Turn back time” è sicuramente rilevabile un importante incremento nella qualità del
songwriting, oggi davvero incisivo e ispirato, pur nel rispetto pressoché assoluto dei dogmi del genere istituiti da “gente” come Toto, Foreigner, Journey e Asia.
Una maggiore varietà stilistica, che non disdegna il ricorso a eleganti ruvidezze sonore, contribuisce alla riuscita di un disco con pochissimi momenti vagamente interlocutori (direi le sole “
Dead man walk” e “
So long ago”, nonostante la presenza in veste di ospite di
Anya Mahnken, coadiutrice di Beyond The Black e Unheilig …), mentre altrove troverete esclusivamente ottima musica eseguita e interpretata con trasporto e inattaccabile perizia.
Si comincia con la cangiante “
Heaven’s gate” (al basso il mitico
Neil Murray ...) e la contagiosa “
Black water”, due brani dall’imperioso “tiro” melodico dominato dalla fascinosa ugola di
Thorsten Bertermann (una specie d’incrocio timbrico tra
Steve Perry e
Phil Collins) e si prosegue con “
Comfort me”, che dimostra come i tedeschi sappiano trattare la materia aggiungendo vigore espressivo a una ricetta intrisa di raffinatezza.
“
Blind” è un esempio di spigliatezza sonica tipicamente mitteleuropea (qualcosa tra Fair Warning e Scorpions), la
title-track dell’opera, cantata con
Olaf Senkbeil dei Dreamtide, conquista con le sue atmosfere soffuse e intense (molto belli gli impasti vocali un po’ alla Kansas) e "
Believe in magic” è un frammento di fluido romanticismo per nulla stucchevole, impreziosito da un leggero tocco Journey-
esco.
“
The walls” percorre con fierezza e buongusto l’irta strada del “già sentito” nell’ambito della commistione tra
rock e
pop, mentre “
How can u say” avrebbe potuto appartenere al miglior repertorio dei Frontline e “
Let the children dance” evoca nella memoria una mistura musicale in cui far convivere i Chicago e gli Yes più “radiofonici”.
“
How does it feel”, non lontana da certe soluzioni espressive care a
Bryan Adams, è l’ultimo sussulto di un album bello e coinvolgente, che induce ad ascolti ripetuti anche a dispetto di un incondizionato rigore stilistico.
A questo punto la distanza con l’
elite del settore si è parecchio assottigliata e attendersi a breve il balzo “definitivo” non è per nulla utopistico … quindi attenzione, cari
chic-rockers … per l’avvincente e impegnativa sfida all’aristocrazia del
melodic rock d’ora in poi sarà opportuno tenere d’occhio anche i
Lioncage.
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