A quattro anni di distanza dal precedente e bellissimo “A Calling To Weakness” tornano i Canaan, bands tra le più apprezzate della scena dark/doom italica.
Il nuovo disco “The Unsaid Words”, come i precedenti del resto, non è un disco di facile ascolto. Richiede una dedizione assoluta, richiede molteplici ascolti, richiede che l’ascoltatore si cali nella parte, si immedesimi nei solchi del disco, che si fonda con esso. E non è facile credetemi.
I Canaan sanno cantare ed esprimere le emozioni più vive e al tempo stesso dolorose dell’animo umano, dove la malinconia è il senso di giorni lontani, che pur tuttavia si susseguono uguali agli altri. Poi ti volti indietro e vedi solo qualcosa di indistinto, una macchia sfocata. Sfocata e inintelligibile come i lineamenti indistinti della ragazza in copertina, avvolta in un blu freddo, a tratti glaciale.
“The Unsaid Words” è un disco nel quale le emozioni sono concentrate in momenti dove l’acme è intenso, procura un dolore lancinante, è un grido che attraversa l’anima, ed è intervallato da momenti di puro ambient, dove è possibile udire violini quasi tzigani, “Sterile”, o canti che sembrano sacri e profani allo stesso tempo, cari alla tradizione di Raison D’Etre, “Fragment #1”, o ancora le inquietanti presenze di “Fragment #3”, e via dicendo. Questi momenti sono strutturati coem dei flashback, dei ricordi indistinti.
Tuttavia i momenti che contano sono perle di musica oscura, dark nel vero senso della parola, permeati fino al midollo di un mood lento, doloroso, figlio di certo depressive-doom. Sto parlando di “World Of Mine”, di “The Possible Of Nowheres”, dell’immensa “Senza Una Risposta”. Canzoni struggenti nel loro nichilismo, il quale devasta qualsiasi parvenza di felicità, di gioia, delineando un mondo, anzi un universo parallelo, dove i colori dominanti sono tonalità fredde di blu e grigio, dove l’alba che sorge è oscurata da una bruma inesplicabile, che lascia filtrare un debole tepore, subito risucchiato da venti gelidi e impetuosi.
Non c’è una sola canzone che non esprima qualcosa di profondamente “forte” in questo disco, un concentrato di emozioni senza pari, con un impianto lirico da brividi, parole a volte rarefatte ma ricche di significato e soprattutto capaci di esprimere in maniera chiara concetti quali “rassegnazione”, “male di vivere”, “consapevolezza”, i quali ritengo siano gli assi portanti e al tempo stesso le chiavi per capire a fondo questo disco.
Questo non è un disco per tutti, non è solo musica, è un racconto di vita, è una confessione, per chi sa ascoltare, per chi ha vissuto, per chi a sofferto, per chi non ha paura di capire, di comprendere, la verità di parole non dette.
“All that begins
has an end somewhere
All that ends had a beginning
somewhere
All that begins, ends...”
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