Era il 2014 quando usciva
“Kaleidoscope” dei
Transatlantic e mi ritrovavo a pensare:
“bello, però…”. Oggi esce
“The Great Adventure” e la sensazione di
déjà-vu si fa a dir poco inquietante.
Stiano sereni i fan più incalliti di
Neal Morse, nel nuovo album dell’artista americano c’è tutto quello che ci si aspetterebbe da lui: un concept - che ricomincia da dove si era interrotto
“The Similitude Of A Dream” - di cento e passa minuti, intrecci vocali in abbondanza, testi impegnati, arrangiamenti da manuale e performance maiuscola. Quello che manca - e questa volta pesa maggiormente perché ho rilevato un lieve “calo” sul fronte tematico/melodico rispetto al precedente capitolo - è un vero effetto sorpresa, un colpo di genio che non faccia pensare solo al “solito” buon disco di
Neal Morse.
Quindi tutto già ascoltato? Più o meno sì, dall’introduttiva
“Overture” con i suoi dieci minuti dallo sviluppo più che collaudato alla conclusiva
“A Love That Never Dies”, crescendo di musica e parole tanto emozionante quanto ormai “scontato” nella discografia del cantante. A volte c’è un pizzico di cattiveria in più
(ma “Welcome To The World 2” non attacca esattamente come “Lie” dei Dream Theater? ndr), altre la memoria va alle soluzioni più barocche e teatrali degli album solisti di
Rick Wakeman (penso a
“To The River”, che ho apprezzato particolarmente).
C’è tanto (troppo?) mestiere tra i solchi di
“The Great Adventure”, almeno alle mie orecchie. Per carità, i risultati sono indiscutibili se parliamo di brani come la titletrack,
“The Great Despair” o
“The Element Of Fear” (ossessiva alla maniera dei
King Crimson).
È altrettanto vero che siamo ben lontani dall’insufficienza, ma non era forse lecito aspettarsi qualcosina di più oltre al “compitino”? Io credo di sì.
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