Oibò … i Dokken senza Dokken?
Eh, già … mentre il buon
Don gigioneggia immaginando di essere sulla prua del Titanic (
ehm, detto così, non esattamente un buon auspicio …) i suoi vecchi compagni
George Lynch,
Jeff Pilson e
Mick Brown si dedicano a questo nuovo progetto denominato
The End Machine.
Frenino, però, gli smodati entusiasmi tutti gli inconsolabili orfani degli “inventori” del
class-metal californiano … in “
The end machine” troviamo solo tenui rimandi a capolavori immortali come “
Tooth and nail” e “
Under lock and key” e qui semmai, complice anche la pastosa gestione microfonica di
Robert Mason, il primo nome da citare come plausibile riferimento è quello dei Lynch Mob, magari assieme a Black Country Communion e King’s X, ricordando altresì l’esperienza KXM, in cui
George ha condiviso il proscenio proprio con il favoloso
Doug Pinnick (e
Ray Luzier).
Un disco essenzialmente di
hard-rock blues, dunque, ma concepito, suonato e prodotto (dallo stesso
Pilson) con un’intensità rara, in grado di rimuovere la patina di eccessiva “prevedibilità” da un genere dalle caratteristiche immarcescibili, in cui, però, l’effetto “già sentito” è sempre in agguato.
Un innato gusto armonico, la fantasia e l’impatto autoritario della chitarra di
Lynch e una sensazione complessiva di “armonia”, rendono l’opera un’appassionata miscela di grinta,
pathos ed eleganza, magnetica e non di rado guarnita dai profumi inebrianti della psichedelia.
Avvolto dalle spire Zeppelin-
esche pulsanti e sinuose di “
Leap of faith”, all’ascoltatore appassionato non resterà poi che capitolare di fronte ai suoni ardenti di “
Hold me down” e, ancor di più, al cospetto dell’andatura ombrosa e seducente di “
No game”, brano dalla costruzione armonica davvero parecchio attanagliante.
Si continua con il clima malinconico e caliginoso di “
Bulletproof” e le cangianti frenesie
anthemiche di “
Ride it”, per approdare alla fascinosa “
Burn the truth”, sussulto elettro-acustico (con singolare
break vocale quasi Yes-
iano) in grado di far impallidire tutti i vari Greta Van Fleet sparsi nel globo terracqueo.
E sempre a proposito di “scossoni” emotivi, che dire, dopo la discreta “
Hard road”, di “
Alive today”? Che si tratta di una magistrale fusione di note e
feeling, frutto di una preziosa scuola melodica, filtrata attraverso una variegata sensibilità espressiva … o più semplicemente, se amate le iperboli, che potrebbe sembrare il risultato di una proficua
jam-session tra King’s X, Underground Moon e Dokken.
L’attitudine vagamente “stradaiola” della coinvolgente “
Line of division” lascia il posto a un altro puro concentrato di turbamento
cardio-uditivo intitolato “
Sleeping voices” (piacerà certamente anche ai
fans dei Rainbow …), seguito da “
Life is love is music” che con le sue irresistibili rifrazioni
funky completa il quadro di un
album avvincente e vibrante, in grado di non deludere chi, più o meno “nostalgico”, sa ancora riconoscere la levatura artistica superiore di musicisti assai ispirati e straordinariamente competenti.