Quando ho saputo dell’uscita del nuovo lavoro dei
Darkthrone mi son detto che sarebbe bastato un album poco più che sufficiente per far sbrodolare i fan di
Nocturno Culto e
Fenriz. Purtroppo, per voi e per me, non mi sbagliavo.
D’altronde il mondo è bello perché vario, e là fuori c’è pure qualcuno che ancora oggi considera
“The underground resistance” e
“F.O.A.D.” lavori traboccanti di idee fresche ad attuali affermando con ferrea convinzione che “non si può pretendere che facciano sempre album uguali a quelli usciti negli anni 90” e/o che “si sono evoluti mantenendo però il loro spirito pur suonando black/punk”.
Eh sì perché
“Old star” alla fine si rivela un disco più che sufficiente e se oggi qualcuno grida al miracolo è solo perché il recente passato dei
Darkthrone è stato ciò che è stato, per cui se vi è piaciuta la svolta – o risvolta – di
“Arctic thunder” allora vi piacerà sicuramente
“Old star”, lavoro che continua nell’opera di ripescaggio del passato della nostra musica favorita da parte del dinamico duo.
Non scopriamo da oggi l’amore incondizionato dei norvegesi per i
Celtic Frost, e
“Old star” è permeato dalla prima all’ultima nota dallo spirito pulsante di
Tom G. Warrior & Co. appena partono le note dell’opener
“I muffle your inner choir”, brano che trasmette bene la tradizionale e sfacciata attitudine
Darktrhone.
La successiva e lunga
“The hardship of the Scots” è sostenuta da uno spiazzante riff alla
Ac/Dc che ha il ruffianissimo merito di stamparsi in testa al primo ascolto, per proseguire fra autocitazioni del passato e i richiami svizzeri di cui sopra. Un pezzo che va sul sicuro per intenderci.
Giunge poi la titletrack, ricca di riverberi nel suo riff ossessivo e cadenzato e dove, finalmente, si riesce a ripescare nell’anima malata della band, con un
Nocturno Culto molto convincente nelle suo cantato straziato.
Ridendo e scherzando però siamo già giunti a metà disco sia in termini di minutaggio che di brani, e la quarta traccia
“Alp man” ripropone nuovamente, con minime variazioni nella parte centrale, lo schema di
“Old star”. L’autocitazione però alla fine risulta nel complesso gradevole.
Penultimo giro con la già nota (perché uscita in anteprima si intende)
“Duke of gloat”, anche in questo caso fioccano le autocitazioni. Brano che funziona, e si capisce perché sia stato scelto come apripista da dare in pasto ai fan essendo molto più diretto del secondo pezzo scelto a rappresentare il cd,
“The hardship of the Scots”. Funziona per un semplice motivo: ammicca sfaccaiatamente all’immaginario collettivo della band. I vecchi fan ringrazieranno e non poco
Gli antichi dicevano “in cauda venenum” (o “dulcis in fundo” scegliete quello che preferite), e il disco si chiude con quello che reputo il pezzo migliore di
“Old star”,
“The key is inside the wall”. Perché lo reputo il migliore? Perché finalmente si sente bussare alla porta quello spirito malvagio, quel riffing penetrante che ha reso i
Darkthrone una delle band leader degli anni 90.
Alla fine, come ho detto in apertura, non mi sono sbagliato:
“Old star” è un lavoro che fa gridare al miracolo perché i precedenti lavori hanno poco o nulla da far sorridere ed hanno lasciato ancor di meno nei nostri ricordi, Mi si perdoni però una ultima polemica, in quanti lo ascolteranno con costanza a distanza di qualche mese?