La notizia del ritorno sulla scena musicale di
Timo Tolkki con i suoi “
Timo Tolkki’s Avalon” è stata davvero un gran bel regalo per chi, come il sottoscritto, negli anni ’90 è cresciuto (beh, “cresciuto”....si fa per dire!) con la musica degli Stratovarius (sia chiaro, di quegli Stratovarius!), sparata nelle orecchie a tutto volume, provando fortissime emozioni, merito indubbiamente della loro tecnica ma anche delle loro singolari melodie nordiche uniche nel loro genere, frutto della mente geniale di Timo, in grado, grazie al suo gusto musicale sopraffino, unito alla sua profonda sensibilità, di saper cogliere come pochi, gli aspetti più intimi dell’animo umano e di saperle raccontare minuziosamente con la sua musica. In altre parole, il musicista finlandese ha sempre avuto il particolarissimo dono di riuscire a descrivere, con la sua chitarra, le inquietudini e gli aspetti più oscuri che risiedono negli abissi della sfera emozionale di ognuno di noi, per questo motivo tantissimi amanti del “power che fu”, per lo più coetanei di chi scrive (ahimè ormai giunti sulla quarantina o oltre), si sentono cosi legati a
Tolkki, l’affetto verso di lui non è mai cessato, nemmeno quando, una volta uscito dagli "Strato", il nostro axeman ha attraversato una profonda crisi d’identità, che ne ha messo a dura prova la sanità mentale, facendolo cadere in una fortissima depressione, altra faccia della medaglia della sua acuta sensibilità che spesso si trasforma in fragilità ed instabilità interiore. In quest’ottica vanno inquadrati i suoi poco convincenti progetti “post-Strato” che vanno dai “Revolution Renaissance”, ai “Symphonia” del compianto Andrè Matos, fino ad arrivare per l’appunto ai “
Timo Tolkki’s Avalon” giunti con questo “
Return To Eden”, al terzo capitolo della loro discografia.
Anche questa volta il buon Timo si circonda di musicisti di grandissimo spessore, in primis tra i vocalists, dove troviamo
Todd Michael Hall (“Riot V”),
Zak Stevens (“Savatage” e “Circle II Circle”), ed il redivivo
Eduard Hovinga (ex-“Elegy”), tra le voci femminili invece fanno la loro comparsa
Anneke Van Giersbergen (“Vuur”, ex-“The Gathering”) e
Mariangela Demurtas (“Tristania”), mentre la sezione strumentale è totalmente tricolore considerando che al suo interno troviamo tutti membri attuali o “ex” degli italianissimi “Secret Sphere”, ovvero
Aldo Lonobile all’altra chitarra,
Andrea Buratto al basso,
Antonio Agate alle tastiere e
Giulio Capone alla batteria. L’inizio del disco, affidata all’orchestrale “
Enlighten” e alla successiva “
Promises”, classico pezzo di power roccioso e melodico al tempo stesso che inizialmente ricorda la più celebre “Will The Sun Rise” e che trova il suo apice negli assoli di chitarra e tastiera, fa indubbiamente ben sperare e si ha da subito la percezione che Timo abbia recuperato una certa freschezza compositiva. Le sensazioni positive proseguono e anzi, fanno aumentare le speranze, nella song successiva, ovvero la title-track, introdotta da una melodia di origine celtica che si riproporrà incessantemente lungo tutta la durata del brano, alla cui voce si alternano egregiamente
Zak Stevens,
Todd Michael Hall e la
Demurtas che conferisce un tono introspettivo e malinconico al pezzo a cui contribuisce anche il breve ma intenso assolo di
Tolkki di chiarissima matrice “Stratovariusiana”. Proprio mentre le nubi del mio scetticismo iniziale cominciavano a svanire arriva il primo passo falso dell’album, rappresentato da “
Hear My Call” dove fa la sua comparsa
Anneke Van Giersbergen alla voce. Il brano, che dovrebbe essere una sorta di semi-ballad, più che rispecchiare lo stile compositivo del chitarrista finlandese, sembra essere uscito da uno dei lavori più recenti dei “Secret Sphere”, quelli dell’”era-Luppi” per intenderci , troppo lineare e melodico, ma soprattutto poco incisivo e nessuno me ne voglia per questa affermazione, per carità, anche perchè personalmente ho sempre amato sia la band italiana che il singer emiliano, tuttavia è innegabile che
Lonobile e soci hanno palesemente modificato il loro sound dopo l’ingresso in formazione di
Luppi che, a sua volta, a mio avviso era più a suo agio nei “Vision Divine”, parere personalissimo, lo ribadisco nuovamente. Purtroppo questa sensazione di sound in un certo qual modo snaturato, la si avrà anche in “
Miles Away” e, a fasi alterne, anche in “
We Are The Ones”, brano pieno di luci e ombre, tutto sommato anche piacevole, nonostante un refrain forse troppo stucchevole, per fortuna ci sono anche in questi casi gli assoli di
Tolkki finalmente ispirati che, come accadeva in passato, scavano nel profondo dell’ascoltatore. A risollevare definitivamente le sorti del disco ci pensano poi tracce come “
Now And Forever”, col suo incedere incalzante che richiama vagamente alcuni capolavori degli “Strato” del periodo di “Destiny”, la velocissima “
Limits” in cui fa la sua ricomparsa dopo tanti anni di assenza dalle scene, l’ex singer degli “Elegy”
Eduard Hovinga il quale, non raggiungerà le vette vocali di una volta, ma si rende comunque protagonista di una prestazione emozionante, replicata poi anche in “
Give Me Hope” altro piacevole brano, melodico quanto basta, affidato al cantante olandese. La vera e propria ballad del disco, dopo i mezzi passi falsi di cui si è parlato precedentemente, è rappresentata da “
Godsend” e questo è chiaramente un pezzo partorito dalla mente geniale di Timo, per la profondità con cui ti entra dentro e per le sue inimitabili melodie malinconiche, seppur semplici. Il disco prosegue poi con la piacevole “
Wasted Dreams”, affidata all’ugola di
Zak Stevens, e si conclude con l’epica “
Guiding Star”, brano tipicamente power, dalle fortissime tinte cinematografiche.
A conti fatti, “
Return To Eden” è un buon lavoro, in cui si trovano tanti aspetti positivi, anzitutto lo stato di salute di
Timo Tolkki, che sembra essere tornato in forma come non lo si vedeva da tempo, grazie ad una ritrovata vena compositiva, certo lontana da quella degli anni d’oro, ma il song-writing è nuovamente fresco ed ispirato, ed è questo l'elemento in assoluto più confortante, soprattutto se si pensa a certi video e foto che giravano fino all’anno scorso in cui il finlandese compariva spesso con lo sguardo spento paurosamente perso nel vuoto e visibilmente ingrassato. Certo, vi sono dei punti oscuri come ad esempio la scelta non sempre azzeccata di troppi cantanti che si alternano, il rischio assai elevato infatti è quello di avvertire un'eccessiva eterogeneità che potrebbe sfociare in una vera e propria dispersione che può indurre l’ascoltatore a sentirsi spaesato e privato di un vero e proprio filo conduttore, non trattandosi comunque di un concept. Inoltre, come già detto, in alcuni frangenti, l’influenza del sound dei “Secret Sphere” finisce per risultare troppo invadente e, lo ripeto, anche se parliamo di musicisti e di una band eccezionali, sarebbe preferibile che il loro stile non contaminasse eccessivamente quello di Timo soprattutto adesso che sembra aver recuperato una certa vitalità, ad ogni modo, detto questo, il disco è comunque promosso a pieni voti e lascia ben sperare per il futuro.