Nella musica (come nella vita, del resto … sebbene con possibili conseguenze leggermente “diverse” …) capita di sperimentare delle passioni “brucianti” e fulminee, in grado di distogliere l’appassionato dai suoi affetti maggiormente duraturi, affidabili e rassicuranti.
Per quanto mi riguarda il
gothic-metal ha rappresentato proprio uno di questi “innamoramenti”, intensi e ardenti nel momento del massimo fulgore e poi spenti e inariditi da un
trend opprimente e da un’evidente (e non raro) fenomeno di diffusa stagflazione.
A volte, però, è bello verificare se la “fiamma” può ancora essere accesa, magari affidandosi a gruppi nuovi che “promettono” molto bene grazie a
background artistici di notevole spessore.
Ed ecco svelati i motivi che mi hanno condotto a trattare il debutto di questi
Ardours, pilotati dall’eccellente laringe di
Mariangela Demurtas (Tristania) e patrocinati dalla
Frontiers Music, un’etichetta che ha spessissimo alimentato i miei consolidati amori musicali e che oggi potrebbe contribuire a perpetrare un piccolo “tradimento” nei confronti di quegli immarcescibili suoni.
Alla prova dei fatti, “
Last place on Earth”, pur senza sconvolgere, si rivela un albo abbastanza interessante, in cui le sonorità tipicamente “gotiche” si combinano con il
rock “mainstream” e con bagliori di
new-wave, assecondando le esigenze degli estimatori di Within Temptation e The Gathering, ma senza costringerli a subire forzate ruffianerie e quel retrogusto di
déjà-entendu fastidioso e persistente.
In tale contesto, piacciono, in particolare, le fascinose pulsazioni di “
Catabolic” (la mia preferita, per la cronaca …), le melodie adescanti della fluttuante
title-track, della vigorosa “
Design” e delle suggestive “
Last moment”, “
The mist” e “
Truths”, in cui l'ugola della
Demurtas sfoggia tutte le sue consistenti possibilità espressive.
Non ancora in grado di stimolare qualcosa di più importante di una piacevole “scappatella”, agli
Ardours va comunque riconosciuto il merito di aver realizzato un lavoro non particolarmente “addomesticato”, all’interno di un genere in cui la sensazione di ascoltare sempre la “stessa canzone” è molto frequente.
Viste le buone premesse, non rimane che attendere con fiducia, magari già dal prossimo disco, una forma d’infatuazione meno effimera e volatile.
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