Copertina 8

Info

Anno di uscita:2002
Durata:44 min.
Etichetta:Rise Above
Distribuzione:Self

Tracklist

  1. A CHOSEN FEW
  2. WE, THE UNDEAD
  3. MASTER OF ALCHEMY
  4. THE OUTSIDER
  5. NIGHT OF THE SHAPE
  6. PRIESTESS OF MARS

Line up

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I quattro anni di attesa per “Dopethrone”, che avevano innalzato la band al rango di culto misterioso e fatto temere una loro scomparsa dalle scene, sono ormai un ricordo. A distanza di un canonico anno esce “Let us prey” a conferma che il trio ha risolto i problemi personali e rinnovato la voglia di proporre il proprio stile devastante e malato. Se il precedente lavoro puntava con decisione sul doom metal pesante e monolitico abbandonando le derive psichedeliche degli strepitosi ep “Chrono.naut” e “Supercoven”, il nuovo album è il risultato di un perfetto bilanciamento tra sonorità tenebrose e cupe ed un delirio di libertà psycho-ossessiva, che incorona il gruppo Inglese come unico, vero, credibile erede degli ultradopati Sleep. Certo è che un disco degli Electric Wizard non è tanto da “ascoltare” quanto piuttosto da “vivere”, per provare un’esperienza all’interno di un abisso oscuro e orrorifico dove non penetra luce e non nasce speranza. Un titolo ed un brano come “Black drug”, parte della monumentale “Master of alchemy”, sintetizza perfettamente la sensazione che si prova nell’immergersi in quest’oceano nero, una droga sonora che ammorba la mente ed i sensi facendo leva su istinti che sanno di riti tribali e primitivi. Risultato di un suono accerchiante, mutevole seppur granitico, effetti si sommano ad effetti e come in un gioco di specchi si possono rintracciare immagini dei classici Trouble come dei bestiali Eyehategod, ma sono istanti passeggeri perché gli Stregoni fanno scuola agli altri con un’intensità desolata da morte dell’universo, rendendo reale e splendida la banale definizione di “space-doom”.
Si nota come il gruppo abbia voluto dare un’indirizzo prevalentemente strumentale a quest’opera, il contributo della voce è minimo, soffocato dagli strumenti e sistematicamente distorto e filtrato, fino a raggiungere il culmine nelle urla animalesche della distruttiva “We, the undead”, esempio insuperabile di horror-song che umilia tanti falsi profeti dell’estremo ossianico. Ma oltre gli ipnotici turbini Sabbathiani di “A chosen few” e “The outsider”, apice di musicisti che nelle loro allucinazioni sembrano gettare lo sguardo in dimensioni ultraterrene, compaiono anche alcuni particolari destinati a mitigare la sensazione di essere stati catapultati in un incubo, come le fredde note di piano ed il violino fluttuante in “Night of the shape” o l’unico, angosciante, tentativo di melodia di “Priestess of Mars”, che degrada lentamente in una lisergica cantilena onirica.
Un disco completo, un viaggio, un passo avanti ai limiti del doom. Non parlo mai di “capolavoro”, perché un lavoro che pretende di esserlo deve avere valenza non solo nell’immediato, ma anche impatto sulle generazioni future e questo non è sempre preventivabile, certo che “Let us prey” potrebbe essere l’icona di paragone per chi deciderà di intraprendere la difficile via di questo genere. Sicuramente sarà compreso tra le migliori uscite di questa florida annata.

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