Un gruppo che si chiama Cretin e che fa un disco chiamato “Freakery” non mi era ancora capitato! Eppure la band esiste praticamente dagli inizi degli anni ’90, ma solo negli ultimi anni è riuscita a fare sul serio giungendo al debutto con questo disco.
Peculiarità della band sono innanzitutto l’amore per il suono ottantiano di bands come Terrorizer, Repulsion e Napalm Death, e di conseguenza i Cretin si fanno portabandiera di un modo di suonare e di registrare più genuino. Infatti la band ha prediletto su “Freakery”, a mò di manifesto del proprio sound, un suono live, senza trigger di batteria e altre diavolerie elettroniche che negli anni ’80 non esistevano, lasciando su disco anche gli errori, senza correggerli in fase di produzione, secondo il motto “se non posso suonarlo dal vivo allora non lo metterò su disco”. In poche parole la bands si schiera contro il moderno grind ed il suo estremismo tecnico/tecnologico.
Seppur notevole, questa coerenza stilistica dei Cretin si traduce all’atto pratico in 16 canzoni della durata complessiva di 30 minuti, durante i quali si assiste ad un vero e proprio revival del grindcore vecchia maniera, quindi molto affine ad una mistura furibonda di hardcore/death/thrash metal, suonati in maniera veloce, non velocissima, senza pause, con canzoni che si assomigliano molto tra di loro. Numerosi sono i momenti di mosh, e l’intensità è notevole, favorita da un suono potente ma molto grezzo. Notevoli pezzi come “Cockfight” e “Mannequin” dove, tra le altre cose, si evince anche l’aspetto più irriverente della band.
Alla fine questo disco va preso per quello che è, una sorta di vero e proprio tributo ai maestri e alla old-school, e quindi gli amanti di quelle sonorità troveranno pane per i loro denti. Tuttavia non ci si può tappare il naso e chiudere gli occhi di fronte all’avanzata del nuovo, sia esso tecnicismo o tecnologismo, e seppur rispettando l’idea dei Cretin, non la condivido. Nel senso che non bisogna per forza di cose scegliere tra un modo o l’altro di intendere il grindcore. Quindi in definitiva il giudizio su questo disco oscilla tra la goduria di risentire un suono datato quanto affascinante e la consapevolezza che oggi in giro c’è molto di meglio. Sei politico.
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