Notte gelida. Interno di un magazzino abbandonato. Muri scrostati, polvere, luci soffuse, una band che suona di fronte ad uno sparuto manipolo di spettatori, forse attirati dal miraggio di un posto caldo più che dall’interesse per la musica. Suoni morbidi, ovattati, su tutto aleggia un velo di tristezza, di pacata malinconia.
Quella band potrebbe essere Widespread Panic, la musica quella inserita nel loro ultimo ed undicesimo album,”Ball”.
Formazione della Georgia praticamente sconosciuta qui da noi, ma capace nel 1998 di mobilitare centomila persone ad Athens, Ge, per la festa di presentazione del loro “Light fuse get away”.
Uno stile straordinario, caleidoscopico, che mischia blues e jazz, country e soul, latin rock e funky, famosi per le esplosive jams live torrenziali, chilometriche, che li hanno portati ad essere eletti veri eredi di due cult-bands Usa: Grateful Dead ed Allman Brothers Band.
Eleganti, eclettici, quasi stregoneschi nelle loro pozioni musicali dove si può trovare di tutto, seguiti ovunque da una schiera di novelli “deadhead” come riuscì solo alla band-clan-famiglia di Jerry Garcia, magari sull’onda di un rinnovato interesse verso le sonorità sudiste poteva essere il momento per loro della consacrazione internazionale, certamente meritata.
Purtroppo un tragico evento, la prematura e recente scomparsa di uno dei membri fondatori, il chitarrista Michael Houser, ha pesantemente influito sull’atmosfera di questo lavoro e le canzoni hanno perso quell’aura di gioiosa e giocosa babilonia elettrica per assumere una piega molto più intimista e seria, in alcuni casi addirittura coperte da una cappa di grigia sofferenza.
Assoluta prevalenza di tempi medio-lenti, molte ballate elettroacustiche dal passo morbido e tranquillo che alla lunga appesantiscono un po’ l’album, già di per sé particolarmente lungo ed impegnativo.
Non c’è dubbio comunque che vengano raggiunti ottimi livelli di liricità con episodi di grande rilievo come la drammatica ed ariosa “Tortured artist” o in un paio di brani di scuola Marshall Tucker (“Fishing”,”Don’t wanna lose you”) che riescono a coniugare perfettamente l’onirico incedere del delta-blues con agganci alla tradizione country da sempre ben radicata nel sound sudista. Interessante anche la song da piano-bar “Time waits” piccolo cameo che ricorda lo stile di certi folk-singer Usa di parecchi anni fa.
Certamente chi cerca rumore e sensazioni forti si tenga ben distante da brani di questa fattura, consigliabili a coloro che non disdegnano soluzioni adulte di rock delicato.
Orientate sulle linee del passato e sulla duttile contaminazione tra i generi, vi sono alcune canzoni molto dilatate e maggiormente dinamiche, con larghe ed intricate porzioni strumentali che mettono in mostra il tocco ispirato e jazz-oriented del new-entry George McConnell.
“Monstrosity” e soprattutto “Nebulous”, che contiene una spettacolare fase rarefatta e psichedelica, alzano di molto il tono del disco ed illustrano le reali capacità di questa matura formazione.
Altro incantevole picco lo troviamo in “Thin air” nella quale si scatena una vena percussiva latina che ricorda il giovane Santana, che si fonde mirabilmente alla struttura jazz-rock riportandomi alla mente gli ottimi e dimenticati Sea Level. Forse il brano che più si avvicina alle migliori composizioni di qualche anno fa.
Peccato per alcuni intoppi come il molle rock-fm “Sparks fly” o qualche soporifero country alla Willie Nelson, che rallentano lo scorrere del disco e lo rendono meno brillante di ciò che poteva essere.
Se di Southern rock concepite soltanto i Lynyrd Skynyrd o ancora peggio i “metallari” Molly Hatchet o Blackfoot, allora i Widespread Panic potrebbero risultarvi indigesti, specie con questo serioso “Ball”. Altrimenti, se di larghe vedute, dedicate al disco il tempo necessario e si rivelerà un opera con i colori dell’arcobaleno ed i sapori gentili e delicati.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?