I Monsterworks sono per metà transfughi neozelandesi, in cerca di fortuna, e per metà inglesi, e a dispetto del look modernista e del fatto che incidano per la Copro Records, si dichiarano fieri difensori e portatori del true metal, al punto di chiamare il loro portale “Supermetal”.
Ciò, musicalmente, si traduce in un pastone di più e più generi metal, dal power, al death, passando per heavy, thrash e hardcore, con pezzi tutti abbastanza corti e soprattutto con l’indigesta, molesta e fastidiosa voce del singer Jon, il quale sembra un novello Rob Halford, con quella voce stridula che spesso stona con il contesto, soprattutto quando la band mette in scena patterns più “downtuned” e massicci.
Il risultato è atipico e bizzarro e quasi mai convince per bontà e qualità della proposta.
Pezzi come “Screwdriver” o “Metal Is Everything” (titolo che manco i Manowar), sono la dimostrazione che l’originalità non è tutto, che, anche se si è abili a suonare con un piede nel passato e uno nel futuro, non sempre si è all’altezza dei propri obiettivi.
I Monsterworks pagano l’essere troppo pretenziosi da un alto e dall’altro di non osare troppo, non staccandosi dai classici stereotipi del metal. Alla fine ci si trova per le mani un disco francamente inutile, il cui pezzo migliore è una ballata folk aggiunta come bonus track, ovvero “Thoroughly Thiught Through”. Forse in Nuova Zelanda non sono molto aggiornati con i tempi, e i nostri avrebbero fatto bene a non lasciare la terra natia, terra di pascoli verdi e numerosi greggi di pecore bisognosi di attenzioni e cure.
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