Il secondo lavoro dei
Sunset Sons, gruppo britannico – australiano ma d’istanza in Francia,
Blood Rush Deja – Vu, è un disco particolare che sicuramente potrà piacere ad un sacco di gente, anche perché è stato concepito così, in un modo molto friendly diciamo.
La cosa che lascia un po’ perplessi è l’etichetta affidata a questo terzetto, cioè indie rock. Bene. Quando si parla di rock, si dovrebbe intendere un genere musicale controcorrente, medium privilegiato per esprimere il malessere di una generazione e cercare di superarlo. Poi, Indie, indipendente, cioè scevro da schemi precostituiti e viranti sicuramente non verso il mainstream.
Queste due accezioni non rispecchiano affatto questo disco, ma forse è questa la strada che questi giovani surfer (vivono a Hossegor, conosciuta ai più come la capitale europea dei surfer) vogliono intraprendere, e se a loro sta bene così, amen…
Moltissime sono le influenze che si possono ritrovare nel sound di questa band:
Imagine dragons,
King of Leons,
Kooks, alcune linee vocali che ricordano
Bono Vox degli
U2, sound provenienti dalla scuola surf americana così come da ambienti caraibici. Ma l’eterogeneità dei brani, davvero uno diverso dall’altro, non aiuta la band a definirsi una identità ben precisa.
Suonato in maniera discreta, il disco scivola via, come ideale colonna sonora da metter su come riempitivo ambient, piuttosto che meritevole di ascolto attento.
Superman, la open track, è una ballad più o meno rock a tutti gli effetti. Da ballo liceale di fine anno. Interessante la caratterizzazione caraibica della strofa di
Problems, che, purtroppo, non ben si sposa con il chorus e il resto della composizione.
Eyes wide open sembra un pezzo degli U2 (nel bene nel male).
Favourite Mistake inizia con un cantato molto intimo, accompagnato da un arrangiamento chitarristico scarno anche se funzionale, quasi veramente, indie, ma che poi va a rovinarsi a metà canzone, con un parte più ritmata che sembra quasi attaccata senza condizione di causa.
Carino, invece
Alien, l’ultimo brano del disco, pezzo con un po’ più di personalità, dove i semplici arrangiamenti riescono a dare un dignitoso sostegno alla voce di
Rory Williams, offrendo agli ascoltatori forse il pezzo più indie e interessante dell’intero album.
Peccato, avrebbero potuto “sporcare” un po’ di più le loro composizioni, e il risultato sarebbe stato decisamente più interessante.
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