La stampa britannica, sempre pronta a sostenere le formazioni di casa e del circondario, pare riponga aspettative elevate verso questi Glyder. In effetti quando si ricevono pubblici elogi da gente come Hawkwind e Annihilator senza aver ancora pubblicato nulla, ma soprattutto quando per produrre il disco d'esordio di una band sostanzialmente sconosciuta si scomoda un personaggio come Chris Tsangarides (Ozzy, J.Priest, B.Sabbath, T.Lizzy), è inevitabile che la critica ed il pubblico drizzino subito le orecchie. Inoltre i Glyder sono irlandesi, ed ogni volta che si tira in ballo la verde nazione il pensiero corre subito in due precise direzioni, entrambe di grandissimo effetto: U2 e Thin Lizzy. Nel bene e nel male questa coppia di colossi del rock condizionano da sempre le proposte musicali provenienti dall'isola, ed anche i giovani Glyder non sfuggono alla regola trovando chiara ispirazione nel gruppo più antico. Dietro ai suoni scintillanti frutto della moderna tecnologia emergono spesso le trame dinamiche ed eleganti derivate dal modello Lynott. In episodi come "She's got it", lo slow d'atmosfera "One for the lost", il potenziale hit-single "Stargazer" o ancora la bella e compatta "Die or dance", ritroviamo infatti la nota ambientazione seventies e le pennellate bluesy, l'inconfondibile taglio melodico delle chitarre, il basso pulsante in primo piano ed i toni profondi del cantante Tony Cullen, tutti segnali che presi nel loro insieme formano una testimonianza evidente di quanto peso abbia ancora oggi il rock dei Thin Lizzy anche sulle nuove generazioni irlandesi. Però i Glyder non sprofondano negli eccessi derivativi e perlomeno mostrano una sufficente personalità nella stesura dei brani. Canzoni rock semplici e pulite, melodiche ed orecchiabili ma senza rinunciare ad una marcata venatura ruvida, sicuramente più adatte ai palati fini e magari anagraficamente maturi piuttosto che ai cacciatori di sensazioni forti. Una discreta varietà di soluzioni che talvolta punta sull'andamento hard con buone dosi di energia, vedi la robusta "Colour of money" o il tiro svelto e grintoso di "Saving face", mentre in altri momenti si ammorbidisce in forme più americaneggianti da adult-rock, con risultati più ordinari ed un po'scolastici quali "Pretty useless people" o "You won't bring me down". In sintesi un'album rock dignitoso ed onesto, con qualche spunto valido ed interessante ed altri meno, ma sicuramente nulla che faccia gridare al miracolo. Molto probabile che i Glyder ottengano successo in patria, grazie proprio alle caratteristiche che li identificano come lontani eredi di una tradizione ancora viva e sentita dalle loro parti. Molto più difficile usare le stesse armi per sfondare altrove, se lo desiderano dovranno dimostrare di saper fare meglio.
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