Il principale “problema” dei
Magnum non è di certo mai stato di tipo qualitativo.
Scorrendo l’imponente discografia dei nostri si potrà trovare qualche piccola fisiologica flessione, ma il livello artistico si è sempre attestato attorno a valori talmente elevati da risultare proibitivi per molti loro colleghi, alcuni dei quali anche oltremodo celebrati.
E allora perché pur rappresentando un’istituzione del
pomp-hard-rock britannico, si finisce spesso (almeno qui da noi …) per trascurarli quando si devono citare le autorità del settore?
Forse i motivi vanno ricercati nella loro coerenza espressiva, incurante della continua nascita di nuovi
trend (anche il tentativo di rendere maggiormente “ruffiana” e “adulta” la loro proposta musicale si è integrato piuttosto bene nell’inconfondibile identità artistica della
band), o nella “austerità”, priva di schiamazzi, con cui da oltre quarant’anni diffondono ispirazione, emozione e immaginazione sonora.
“
The serpent rings” è l’ennesima testimonianza di come la creatività compositiva e la sensibilità esecutiva di
Tony Clarkin appaiano “miracolosamente” inesauribili e di come i polmoni di
Bob Catley garantiscano ancora una volta estensione interpretativa e suggestione emotiva, confermando il suo proprietario tra le figure vocali dominanti del genere.
Il resto lo fanno li sussulti ritmici di
Lee Morris e della
new entry Dennis Ward (Pink Cream 69, Place Vendome, Unisonic, …) e la costante applicazione delle tastiere di
Rick Benton, abilissimo nel “gonfiare” di fascinoso sfarzo altri undici frammenti di magia in note, da aggiungere al sontuoso e voluminoso
songbook del gruppo.
L’albo è solenne e impetuoso, unisce intensità e romanticismo barocco senza apparire schiavo del passato, mentre a quelli che eventualmente potessero considerare “datata” o eccessivamente prevedibile questa formula musicale posso solo dire che di fronte al fervore di certe sensazioni anche il “tempo” e la mancanza di autentiche “sorprese” diventano fattori sostanzialmente accessori.
Dall’apertura incalzante e sinfonica di “
Where are you Eden?”, fino alla magnetica
grandeur dell’epilogo “
Crimson on the white sand”, il programma produce continue scariche endorfiniche, alimentate dalle dense pulsazioni di “
You can’t run raster than bullets”, dal
groove trionfale e vaporoso di “
Madman or messiah” e dalle atmosfere maestose ed evocative di “
The archway of tears”, della
title-track e di “
House of kings”.
Anche quando i suoni si fanno leggermente più diretti e pragmatici, come accade in “
Not forgiven”, soffusi e sognanti, come in “
The great unknown” e “
The last one on Earth”, o pugnaci, come in “
Man”, la tensione espressiva non accenna a diminuire, a completamento di un’opera che non potrà essere trascurata da chi si professa un cultore della melodia vibrante e magniloquente.
“
The serpent rings” è, dunque, un concentrato di talento, classe, vitalità ed esperienza in grado di sostenere impegnativi confronti con la blasonata “storia” dei
Magnum e legittimare per loro importanti ambizioni anche nel convulso e distratto
rockrama contemporaneo … il momento di andare in pensione è ancora molto lontano e per una volta non c’entrano sistemi previdenziali al collasso o promesse elettorali puntualmente disattese.