Si tratta di un dilemma che ciclicamente torna ad affliggermi, ma che per la
band quest’oggi in esame acquisisce particolare attualità: è corretto valutare un
album sulla base delle aspettative che riponevamo in esso?
La dissertazione è molto meno accademica di quanto si creda: gli
Inno, infatti, si presentavano ai nastri di partenza con tutte le credenziali per fare il botto.
Ci troviamo di fronte ad una sorta di
dream team capitolino, che sfoggia tra le proprie fila ex membri di
Stormlord,
Riti Occulti,
Fleshgod Apocalypse,
Hour Of Penance,
Novembre e
The Foreshadowing; oltre a ciò, il
debut vanta un
mixing a firma
Marco Mastrobuono e
Giuseppe Orlando (anche alla batteria), ed il
mastering curato da
Jacob Hansen.
Credenziali da acquolina in bocca, tanto che prim’ancora di ascoltare una sola nota ero già pronto a snocciolare, in sede di recensione, il mio repertorio di aggettivi iperbolici ed espressioni tripudianti. Il continuato (ed ostinato) ascolto di “
The Rain Under”, tuttavia, ha disvelato una realtà meno trionfalistica.
Allo stesso tempo, appare opportuno valutare il rovescio della medaglia: se mi fossi approcciato al
platter con spirito perfettamente laico e senza nulla conoscere del
background del gruppo, sarei rimasto piacevolmente impressionato.
Il
dark degli
Inno suona moderno senza indulgere in arrangiamenti elettronici o ritmi danzerecci, vanta notevoli doti di suggestione melodica pur non rinunciando a sporadiche iniezioni estreme, è confezionato e suonato con invidiabile perizia, e riceve un
boost non indifferente dalla magistrale prestazione canora di
Elisabetta Marchetti.
Cosa impedisce, dunque, di entusiasmarsi senza riserve?
È presto detto: la mancanza di personalità e voglia di osare.
Nei solchi di “
The Rain Under” non si percepisce sufficiente spinta alla ricerca di un
sound distintivo, ma anzi si assiste alla supina riproposizione di stilemi compositivi e formule sonore già perfezionate da (tante) altre compagini che operano all’interno dello steccato stilistico di riferimento.
Il risultato, come detto, è inattaccabile sotto il profilo formale e davvero godibile; dal parto creativo di musicisti così navigati e talentuosi, però, mi sarei atteso un approccio meno conservativo.
Il peso delle aspettative, come si scriveva in premessa.
Ciò non toglie che i saliscendi emotivi di “
The Hangman”, l’afflato mistico di “Goliath”, i suadenti affreschi sonori di “
Pale Dead Sky” e le malinconiche pennellate chitarristiche del singolo “
Night Falls” sapranno senz’altro deliziare i palati di chiunque apprezzi il genere.
Visto che, a voler ben vedere, parliamo pur sempre di un disco d’esordio, va benissimo così; ma in occasione del secondo
full, cari
Inno, vi invito a sorprenderci.
Attendiamo fiduciosi.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?