Terzo album in studio per i napoletani
Last Frontier che, con questo
Aether (Equivalent Exchange), tentano un sensibile balzo qualitativo in avanti rispetto ai due precedenti lavori, peraltro riuscendoci parzialmente.
Iniziamo subito parlando delle cose che funzionano: anzitutto il disco è agevolato da una migliore produzione rispetto al passato, molto meno compressa, ne beneficia il suono che risulta indubbiamente molto più pulito, c’è poi da segnalare la presenza di un nuovo singer (
Marco Cantoni) che si rivela sin dall’iniziale
Cults Of Cargo molto adatto allo stile della band, inoltre le composizioni melodiche, sempre tirate, risultano molto più lineari che nei precedenti lavori in cui invece, spesso e volentieri, avevano dato l’impressione di essere eccessivamente complesse, a tratti confusionarie, figlie forse, come si suol dire, della troppa carne al fuoco messa dalla formazione partenopea e dell’eccessiva smania di voler a tutti costi stupire.
Aether invece è un lavoro molto più diretto e paradossalmente, proprio per questo colpisce, e funziona molto meglio. Le tastiere ad esempio, sempre ben curate da parte di
Cyrion Faith, disegnano delle melodie che, per quanto semplici, si rivelano inquietanti, a tratti drammatiche, e tengono sempre alta la tensione dell’ascoltatore, vedasi brani come
Flames Of Moloch,
Wings Of Stone o
The Brier, in cui è altresi presente una rocciosa sezione ritmica, segnata per lo più da tempi dispari da parte del drummer
Silent Kaos.
Talvolta, le chitarre di
Nitrokill si muovono in maniera camaleontica all’interno delle oscure atmosfere create dalle tastiere, tessendo delle trame musicali in costante evoluzione, seguendo una logica che riconduce indubbiamente al tradizionale heavy metal, ma che spesso e volentieri sfocia nel progressive, come accade in
Fields Of Thetis, in
The Willow o nell’affascinante
The River dai fortissimi tratti dreamtheateriani ma, al tempo stesso, assolutamente maideniana, in particolare nel refrain.
Insomma, proprio quando il disco sembra convincere, arriva la nota dolente: quella stessa linearità di cui si parlava precedentemente in toni assolutamente positivi e ritenuta il vero e proprio punto di forza dell’album, costituisce, per assurdo, anche il suo stesso limite, soprattutto in quei brani dalla durata maggiore, come la conclusiva
Shahar, che supera i 12 minuti e che, alla lunga, risulta troppo ripetitiva nelle soluzioni melodiche che si rivelano a loro volta, eccessivamente monotematiche, e non presentano particolari evoluzioni stilistiche.
Forse, ciò che ancora manca ai
Last Frontier per fare il definitivo salto di qualità è trovare un perfetto bilanciamento, difficile da raggiungere, sia chiaro, tra elementi apparentemente agli antipodi come spontaneità e complessità, fare in modo che la regolarità del proprio sound si sposi armonicamente con delle scelte stilistiche più eterogenee e cangianti, finalizzate ad un maggiore coinvolgimento dell’ascoltatore, scongiurando quindi il rischio di tediarlo, nel caso in cui, al termine dell'album, decidesse di ascoltare una seconda volta il disco che, anche cosi com’è, se preso a piccole dosi senza abusarne, risulta comunque godibile.
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