Se dopo un lungo periodo di stasi ho ritrovato interesse per il rock duro, il merito è tutto della cerchia di bands poco conosciute di cui fanno parte anche i Dixie Witch. Gente che si muove ai margini delle scene importanti, senza supporti mediatici, ma che ha saputo rigenerare il vero spirito dell'hard'n'heavy più puro e grintoso.
Il trio texano è giunto al traguardo del terzo album, il secondo per Small Stone, ed il fatto è già un successo se si pensa che hanno sempre pubblicato per piccole label indipendenti ed il loro seguito è composto da un manipolo di fans fedelissimi.
Diciamo pure che i Dixie Witch non sono certo innovativi nè vantano intuizioni fulminanti, però riescono ad affascinare in virtù di uno stile che ha nella grande potenza la sua arma vincente. Che si muovano lenti e maestosi o che si fiondino in repentine accellerazioni, ciò che trasmettono sono sempre vibrazioni rocciose e possenti, una muscolarità bellicosa che riporta alla mente i famosi barbari di Franzetta per le copertine dei Molly Hatchet.
Non è un paragone campato in aria, nel sound degli americani il feeling sudista è importante come quello dell'hard rock/blues settantiano, ma c'è ancora un terzo componente che funziona da collante per tutto il resto. E' il rivestimento metallico che si ispira ai tempi del passaggio tra l'hard '70 ed i primi vagiti dell'heavy metal, quando il nuovo genere era ancora unitario e non frammentato in una miriade di correnti isolate.
Perciò la definizione heavy rock sembra coniata su misura per i Dixie Witch ed anche per il loro ultimo lavoro.
Un disco attraversato da una vena di ispida ribellione, da una forza genuina ed incontaminata che genera in modo naturale brani massicci e tambureggianti come il trittico iniziale "Set the speed", "Shoot the moon", "S.o.l", vera gioia per gli appassionati del rock ad altissimo tonnellaggio che non sia figlio di corruzioni estremistiche.
Qui tutto nasce semplicemente dal poderoso e torreggiante drumming di Trinidad Leal e dalla sua voce intimidatoria da biker texano, insieme ai micidiali riffs ed alla cascata di assoli corrosivi dell'eccellente Clayton Mills, ed infine dall'oscuro ma essenziale lavoro di collegamento del bassista Curt Christenson .
Groove sporco e trascinante adatto agli appassionati dello stoner pesante, ma anche ai nostalgici del primo metal anni '80 e per gli amanti delle atmosfere southern rock.
Queste emergono più chiaramente quando il trio smorza l'andatura nervosa, lasciando che affiori l'anima bluesy degli autentici rednecks. Ad esempio nella bellissima "Ballinger cross", un lungo slow carico di vibrazioni drammatiche che potrei definire southern-doom, oppure in mid-tempo polverosi da "rock'n'roll outlaws" come "What you want", dove attraverso le linee heavy si sentono gli echi della tradizione sudista.
Dopo aver scaricato una montagna di forza muscolare, i Dixie Witch nel finale si concedono anche un momento rilassante e creano lo spettacolare trip strumentale "The last call", infinita spirale dai toni onirici dominata dal volo siderale della lead di Mills, una chiusura nel segno dello psych-rock semplicemente fantastica.
Spiace sapere che saremo in pochi a parlare dei Dixie Witch, forse troppo pesanti per alcuni e poco metal per altri. Ma non sarà una recensione in più a cambiare la situazione di un disco ideale per chi segue la scena indefinita tra l'hard rock, lo stoner e l'heavy metal. In pratica tutti coloro che non si perdono un prodotto Small Stone, ai quali posso garantire che la band texana attualmente è uno dei nomi di punta della label di Detroit.
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