Per il sottoscritto, adoratore sia del
debut “
Here Now, There Then” che delle scorribande
vintage dei
The Devil’s Blood (in qualche modo precedente incarnazione dei
Dool), “
Summerland” rappresentava uno degli appuntamenti discografici più attesi del 2020.
Tuttavia, senza girarci troppo attorno, il risultato finale ha finito per frustrare le mie aspettative, tanto che il termine “delusione” compendia in modo piuttosto accurato la mia umile opinione.
Ma andiamo per gradi: chi conosce la compagine olandese saprà che si discute di una creatura sonora talentuosa, preparata, abilissima nel mescolare le influenze più disparate ed i differenti
background musicali dei singoli musicisti in un amalgama coerente e stimolante al tempo stesso.
Tali capacità, come ovvio, non sono evaporate in occasione del secondo
full; semmai, sono state sacrificate sull’altare dell’orecchiabilità.
L’impressione è che in “
Summerland” le inflessioni
indie e
post rock abbiano finito per prevalere -ed in modo piuttosto netto- su quelle
wave,
occult e
gothic.
Da ciò derivano nove composizioni senz’altro gradevoli, ben composte ed eseguite, che tuttavia ho trovato sin troppo di maniera, educate, azzarderei algide.
Non aiuta affatto la produzione a firma
Martin Ehrencrona (già con
Tribulation e
In Solitude), tanto pulita quanto esangue, semplicemente inadeguata a conferire la giusta profondità a brani già leggerini per natura.
I brani, si diceva: la doppietta iniziale “
Sulphur & Starlight” e “
Wolf Moon” denuncia placide suggestioni
alternative pop e si arena in occasione dei
chorus, carucci ma in alcun modo memorabili.
“
God Particle” e “
The Well’s Run Dry” recuperano parte delle sonorità
darkeggianti che graziavano l’esordio, ma le edulcorano con una impostazione vocale tutt’altro che graffiante e con suoni, ancora una volta, eccessivamente cristallini.
La
title track e la conclusiva “
Dust & Shadow” (forse la mia prediletta) sfoggiano atmosfere liquide e sospese, con un incedere rallentato di matrice (quasi)
doom; peccato per la dilatazione eccessiva delle partiture, che avrebbero goduto di maggior efficacia laddove spalmate su minutaggi inferiori.
L’attendista “
A Glass Forest” si salva in corner grazie al buon
break chitarristico, mentre ho trovato “
Ode to the Future” davvero troppo
easy listening, tanto da ricordare talune
hit radiofoniche simil-
country pop dei
nineties -i nomi snocciolateli voi, io mi vergogno-.
“
Be Your Sins”, da ultimo, tenta il colpo di coda, con un
riff galoppante a cavallo tra
Ghost,
Muse e gli
Heart di “
Barracuda” (ve li ricordate, vero?); ma è troppo poco e troppo tardi.
Con mestiere (e calcolo?) i
Dool riescono comunque a portare a casa la pagnotta; eppure, resta l’impressione che “
Summerland” scorra come acqua fresca, tanto piacevole quanto impalpabile, senza lasciare alcun retrogusto.
Manca qualcosa; chiamatelo guizzo, zampata, ispirazione… a me sovviene il termine “anima”, ma non vorrei risultare troppo cattivo.
Per chi scrive, comunque sia, un’occasione persa.