Dei
Cryptic Shift di certo non si può dire che non siano stati prolifici durante i dieci anni della loro carriera. Formatisi nel 2011 a Leeds, England, hanno pubblicato due demo, tre singoli, un EP e uno split su tape con i Bestial Invasion. Nel 2020, infine, arrivano alla tanto agognata pubblicazione del full di esordio, pubblicato dalla
Blood Harvest.
Non ci sarebbe nulla di strano in tutto ciò, sono tante le band prolifiche che ci anno abituato a pubblicazioni ravvicinate. La particolarità sta nel fatto che il genere proposto dai nostri non è certo dei più semplici ed immediati. Ci troviamo, infatti, dinanzi ad un thrash/death estremamente tecnico, un po’ sulla falsariga dei Sadus e dei Nocturnus. Tempi dispari, riff spezzati, basso fretless, cambi repentini di atmosfere, c’è tutto quello che i fan delle sonorità in questione possono aspettarsi da una band del genere.
Per mettere subito le cose in chiaro, i nostri piazzano in apertura
Moonbelt immolator, 25 minuti di pezzo che racchiude in pieno tutta quella che è la filosofia della band. Si ha subito l’impressione che possa bastare questo singolo brano per giudicare l’intero album, tanto è complesso e ricco di cambiamenti, ma più avanti ci accorgeremo che non è così. Parliamo di arpeggi, sonorità dilatate da sample ed effetti sonori, ma soprattutto tutta la maestria dei nostri, che sono perfettamente a proprio agio con cambi di tempo, tecnicismi vari, belle melodie di chitarra e via dicendo.
Sarebbe però riduttivo non parlare dei restanti tre brani, che vanno a completare un’opera complessa ma al tempo stesso ascoltabilissima, in quanto i nostri riescono a mantenere sempre viva l’attenzione, e a non cadere nell’errore di stuccare l’ascoltatore con tecnicismi fini a sé stessi. Questi, infatti, pur essendo altamente presenti, in special modo per quanto concerne il basso di
John Riley, che tesse trame complesse che si vanno ad intersecare ai riff di chitarra, sono sempre a servizio della canzone e della riuscita finale del brano, non ci troviamo mai al cospetto di autoerotismo dello strumento.
Dicevamo dei restanti brani… dopo la complessa suite messa coraggiosamente in apertura, le cose tornano ad essere più a portata di mano, con composizioni più snelle nel minutaggio, ma questo non significa che siano più banali dal punto di vista compositivo. Se proprio vogliamo dirla tutta, dal secondo brano in poi inizia la parte più interessante dell’album, in quanto la suite è sì affasciante ma anche un tantino dispersiva. I sei/sette minuti dei restanti brani risultano molto più godibili ed immediati, pur non perdendo un’oncia della ferocia e della perizia esecutiva del quartetto inglese.
(Petrified in the) hypogean gaol è forse l’episodio più riuscito del disco: violento, veloce, complesso e ricco di arrangiamenti, con il basso sempre in iper evidenza, ma anche le ultime due tracce non sono da meno, dalla più calma e ragionata
The arctic chasm, al la conclusiva
Planetary hypnosis, che è forse la summa di entrambe le song precedenti, visto che racchiude infatti sia parti più tirate e tecniche che altre più di atmosfera.
Beh, che dire, sono rimasto davvero piacevolmente sorpreso da
Visitation from Enceladus, e calcolando che stiamo parlando di un esordio (lasciamo stare tutte le pubblicazioni minori di cui ho parlato in apertura), direi che le fondamenta sono state ben piazzate. Da ora in avanti la band non potrà fare altro che migliorare e maturare la propria proposta, e sono sicuro che già dal prossimo album in studio riuscirà ad alzare ulteriormente l’asticella…
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