Un concept album con brani incentrati su eventi avvenuti nello stesso anno in diverse città, ecco in sintesi
“1968”, l’ultima fatica discografica dei tedeschi
Flying Circus.
L’idea non è particolarmente intrigante, così come la musica contenuta in questo full-length che brilla della luce riflessa dei
big del passato hard/progressivo senza risultare mai veramente personale e incisiva.
In
“1968” spicca la confusione: c’è il sound caotico dei Van Der Graaf Generator o degli Area (
“Paris”), un certo incedere
groovy più propriamente americano (
“New York”, “Memphis”), del funk un po’ forzato (
“Vienna”, città arcinota per questo tipo di sonorità, vero?) e
cliché a pioggia nelle più progressive - ma tutt’altro che organiche -
“The Hopes We Had” e
“Berlin”.
Qualche buona idea c’è, come nella teatrale
“Prague”, nella breve e folkeggiante
“Derry” (con il violino pirotecnico) o nella conclusiva e sinfonica ripresa di
“The Hopes We Had”, ma è poca roba rispetto al minutaggio complessivo.
Difficile andare oltre la sufficienza.
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