Verso la metà degli anni '80, in Svizzera, c'erano due bands che monopolizzavano la scena del metal estremo (per quei tempi): una erano i Celtic Frost, l'altra i
Messiah. I secondi ebbi modo di apprezzarli quando acquistai, quasi a scatola chiusa, il loro primo vinile "Hymn to Abramelin" (1986, Chainsaw Murder Records). Grezzo e dilaniante thrash-proto-death metal, ignorante e furioso, bestiale ed oscuro, pieno di riferimenti occultistici e satanisti, mi impressionò parecchio perchè all'epoca amavo immensamente le sonorità più "raw" e viscerali. Così presi al volo anche il secondo album, "Extreme cold weather" (1987), che però si rivelò una mezza delusione. Insieme a brani assolutamente fantastici, come la gelida e seminale proto-atmosferic-black title-track o lo strumentale dark-thrash "Hyperborea", c'erano brani confusi ed ondivaghi come "Radetzky march" o "Johannes Paul der letzte" dove il trio sembrava palesemente indeciso sulla direzione stilistica da prendere. Per non parlare della seconda parte, una riproposizione live del primo disco registrata malamente come un demo di bassa qualità.
Quel lavoro fece perdere credito alla formazione elvetica e, nonostante l'ingresso nel roster della potente Noise Records e la pubblicazione di altri tre dischi durante la prima metà dei '90, la loro parabola giunse al termine senza eccessivi rimpianti.
Ma oggi, nell'era del revival e delle seconde possibilità per chiunque, i
Messiah sono tornati in azione e sfornano un nuovo capitolo discografico: "
Fracmont" per la
High Roller Records.
La line-up è quella del periodo Noise, con il solo
R.B.Brögi (chitarra) unico componente originale insieme a
Andy Kaina alla voce,
Patrick Hersche al basso e
Steve Karrer alla batteria.
Occorre ammettere subito che gli svizzeri hanno puntato tutto sulla non indifferente esperienza maturata nei decenni: infatti l'album appare coeso, ben delineato, splendidamente prodotto ed ottimamente suonato. Evidente il desiderio di coniugare il remoto passato brutalizzante con una dimensione moderna che tiene conto dei decenni trascorsi dagli esordi.
Sull'altro piatto della bilancia, il materiale non risulta certo sorprendente. Rigurgiti thrash slayeriani, forti componenti di classic-death, sporadici cenni di atmosfera cultista e malvagia. In sostanza niente di nuovo, pur se con buona dimestichezza con la materia sonora. Anche le vocals gutturali di
Andy Kaina, certamente funzionali allo scopo, ricordano centinaia di altre interpretazioni simili o analoghe.
Nell'insieme il disco appare robusto e devoto alla antica attitudine extreme-metal. Alcuni brani brillano maggiormente sia per impatto che per qualità strutturale. Sicuramente spicca la lunga title-track, il cui titolo fa riferimento all'antico nome del monte Pilatus nei pressi di Lucerna, che è un articolato percorso attraverso il techno-thrash/death con qualche concessione melodico-atmosferica. Violenza e desolazione, brutalità e drammaticità, qui i
Messiah dimostrano di non aver annacquato nel tempo la loro carica di ferocia primitiva. Citazioni storiche, mitologiche, ossianiche, soprattutto un bel tiro massiccio e variegato guidato dai riff illuminanti di Brögi, per una cavalcata possente e matura.
Nella stessa direzione troviamo "
Children of faith", che dopo un intro melodico evolve in un grezzo thrash dal retrogusto germanico-ottantiano, così come la grezza e feroce "
Throne of diabolic heretic", roba da pogo come non ci fosse un domani. Brani che sembrano provenire con un salto temporale dalla seconda metà degli eightees. Cadenzata e granitica "
Morte al dente", molto Kreator/Sodom, ancora più cupa e death "
Urbi et orbi" segnata dal gutturale e viscerale canto di
Kaina.
C'è qualche altro pezzo più di routine, sebbene di livello più che sufficiente, ma questo disco è comunque la testimonianza che i veterani e pionieri svizzeri hanno mantenuto lo smalto e la cattiveria dei bei tempi. Non è poco. Benritrovati.
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