Continua la serie di ristampe relativa alla discografia dei
Blue Oyster Cult, da parte della nostra
Frontiers Music. Adesso tocca a "
Curse of the hidden mirror", pubblicato originariamente dalla Sanctuary Records nel 2001. Si tratta del tredicesimo lavoro della grande band americana che all'epoca, diciamolo onestamente, non ebbe successo, tanto da decretare la fine della collaborazione con l'etichetta ed una fase di stasi creativa durata praticamente fino ad oggi, in attesa del nuovissimo e molto atteso "The symbol remains".
Com'è questo disco? Innanzitutto è un disco dei
BOC, quindi scampoli della classe e della ispirazione sci-fi hard rock di questa band trapelano in vari punti degli undici brani. Ispirato e brillante come i capolavori degli anni '70? Direi proprio di no, perchè appartiene ad un'altra fase della vita artistica di
Bloom e compagni. Un periodo più orientato verso un hard classico ed infarcito di venature catchy ed orecchiabili, molto meno oscuro e sinistro rispetto al passato.
Brani come "
Dance on stilts", "
I just like to be bad" o la rock-ballad americana "
Here comes that feeling", sono episodi eleganti, tranquilli, rassicuranti, piacevoli da ascoltare in radio, molto ben suonati (ovvio..) ma non certo paragonabili alla tensione occulta e minacciosa di "Transmaniacon MC" o "Subhuman", tanto per fare un paio di esempi. Siamo molto più vicini ad opere come "Mirrors" o "Imaginos", pensati per il mercato Usa ed un pubblico più generalista, allargato ed abituato al rock ad ampio respiro anzichè all'hard viscerale e bruciante che questo gruppo ha saputo generare con mirabile maestria.
Più intriganti episodi come "
Showtime", la raffinata "
Stone of love" e soprattutto l'hard oscuro "
The old gods return", che con i loro sapienti intrecci chitarristici e l'atmosfera velatamente onirica recuperano qualche brandello del sound delle origini. Certo, la grinta e l'impatto non sono gli stessi di allora, ma la qualità del songwriting rende comunque sufficiente giustizia al glorioso
Culto dell'Ostrica Blu. Ottimi assoli e cambi di tempo, voci inconfondibili, melodie memorizzabili ma non banali, in sostanza un rock di esperienza e qualità con una pennellata bluesy che non guasta mai.
Carina l'orecchiabile "
Pocket", molto radio-oriented, così come non dispiace la nervosa "
Eye of the hurricane", anche se un pò appesantita dagli arrangiamenti orchestrali, perchè il tiro è secco e sferzante grazie ad un pizzico della vecchia cattiveria trasversale, mentre la conclusiva "
Good to feel hungry" mostra un buon giro di basso, groove Purpleiano, ma si perde nei passaggi melodici. Sempre lucido e fluente il chitarrismo pungente, ma non convince appieno.
Album sufficiente, ma lontano dai fasti del passato. Si percepisce una sensazione di stanchezza, di routine professionale, di appannamento di quell'originalità stimolante che i fans della prima ora hanno apprezzato con tanta passione. Il tempo passa per tutti, verrebbe da dire. Ricordiamo ancora che questo è l'ultimo lavoro nel quale compare il leggendario tastierista/chitarrista
Allen Lanier, scomparso nel 2013 dopo lunga malattia.
Se dovessi far conoscere i
Blue Oyster Cult ad un neofita, non comincerei certamente da questo disco.
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