I
DGM sono tornati e...c’è poco da fare....questi ragazzi (forse non più tanto ragazzi, ma chi scrive è pressoché loro coetaneo quindi, non me ne vogliano) non sbagliano
MAI un colpo!
Un pò di brevissima storia per quei poveri cristiani che ancora non conoscono la formazione, di origini capitoline, ma oggi ormai tricolore a tutti gli effetti, attingendo a piene mani da tutto lo stivale: i
DGM nascono appunto a Roma nel lontano 1996 e nei loro primi lavori propongono un progressive metal di stampo tipicamente classico, con un sound riconducibile tanto ai Dream Theater, quanto (soprattutto) ai Symphony X.
Dopo vari cambi di formazione, il gruppo assume una fisionomia ben definita nel 2007 e da allora la line-up è sempre rimasta invariata, potendo contare sul virtuosissimo
Simone Mularoni (già negli Empyrios) alla chitarra,
Andrea Arcangeli (autore di una miriade di collaborazioni tra cui Noveria, Hevidence, Ark Ascent) al basso,
Fabio Costantino alla batteria,
Emanuele Casali (anche lui ex-Empyrios ed ex-Noveria) alle tastiere ed il carismatico frontman
Mark Basile (ex Mind Key).
Ma torniamo ai giorni nostri: sono passati esattamente 4 anni dall’ultimo lavoro in studio, il bellissimo “The Passage” (2016), un disco che già aveva segnato un sostanziale passo in avanti nella crescita artistica della band, che comunque già da tempo si era ritagliata un meritatissimo ruolo di primo piano all’interno del panorama prog-power, non solo italiano, ma mondiale, e ora, i nostri danno alla luce questo altrettanto stupendo
Tragic Separation, un concept che ruota intorno al tema complicatissimo del reale significato della vita.
L’atmosfera dell’album, considerata anche la delicatezza dell’argomento trattato, è in costante evoluzione, ma in generale, l'elemento dominante è il pathos. Si passa dai momenti più aggressivi dell’iniziale
Flesh and Blood, in cui si viene subito sbattuti con le spalle al muro dalla ferocia delle chitarre compresse (al limite della claustrofobia) di
Simone Mularoni e da una sezione ritmica che non concede respiro alcuno (probabilmente si tratta della rappresentazione musicale della crudeltà di alcuni momenti della vita), a brani come
Surrender o
Hope che invece, seppur caratterizzati da una struttura robusta, aprono a soluzioni melodiche, funzionali alle lyrics, il cui scopo è quello di concedere una sorta di speranza all’ascoltatore, lasciandogli intravedere la classica “luce in fondo al tunnel”.
In questo alternarsi di emozioni c’è poi spazio per pezzi più riflessivi ed intimi come
Fate o la delicatissima (ma solo nell’intro pianoforte-violino, perché poi i nostri ricominciano a pestare di brutto!) title-track; sebbene, l’accezione di termini come "riflessivo" ed "intimo", debba sempre essere contemplata all’interno della concezione musicale della band che, anche nei momenti più introspettivi, non rinuncia al suo tipico sound particolarmente incisivo, in cui lo spessissimo "muro di suono" costruito dagli arrangiamenti, dai riffs e dagli assoli
Mularoni e dalla sezione ritmica del solidissimo duo
Arcangeli-Costantino, si amalgama alla perfezione col tappeto di tastiere creato da
Emanuele Casali e con le emozioni generate dalla voce intensa ed espressiva di
Mark Basile, scaturendo un turbinio di sensazioni, difficilmente descrivibili a parole.
In
Stranded riemergono tutti quei tratti tipici dei Symphony X, che avevano caratterizzato i primi dischi dei
DGM, ma di tempo ne è passato e adesso siamo al cospetto di una band assai più matura, cosi queste influenze si piegano secondo il volere del quintetto tricolore e diventano funzionali al sound dei nostri, i quali continuano con sempre crescente entusiasmo a macinare instancabilmente tracce intrise di passione, rabbia, malinconia e melodia, tutti elementi che trovano il loro apice nella meravigliosa
Land Of Sorrow, probabilmente il brano in assoluto più introspettivo del disco in cui, ancora una volta, l’assolo di
Mularoni si dimostra il vero valore aggiunto del pezzo.
Prima che il sipario cali (
Curtain) su quest’ultima fantastica gemma discografica della band, c’è ancora spazio per altri due pezzi come
Silence e
Turn Back Time, che meglio non potrebbero sintetizzare l’attuale sound dei
DGM, in passato considerati semplicemente “la risposta italiana a Dream Theater e Symphony X”, oggi invece una formazione affermata e dotata di un proprio stile personale e ben definito, a sua volta preso come punto di riferimento (se non spudoratamente imitato) da tanti altri gruppi.
Insomma,
Tragic Separation segna un ulteriore passo in avanti nella carriera dei
DGM, il disco è un’incredibile dimostrazione di come i nostri oggi siano maturati artisticamente, riuscendo a bilanciare perfettamente tutti i differenti aspetti del loro sound: sanno essere feroci senza rinunciare mai all'eleganza, sono in grado di essere tecnici senza mai tralasciare le emozioni e, con quest'ultimo lavoro, hanno dimostrato di poter anche affrontare tematiche esistenziali particolarmente intime e profonde, senza mai smettere di essere “sé stessi”; hanno esplorato i terreni impervi dell'umana coscienza, evitando di puntare troppo sulla drammaticità (alla Stratovarius dei tempi d'oro, per intenderci) che avrebbe probabilmente snaturato la visione musicale della band, ma facendo leva sul loro personalissimo stile, caratterizzato da composizioni particolarmente elaborate e melodiche, ma che sanno essere al tempo stesso aggressive, a tratti feroci e che per questo spingono l'ascoltatore, non solo a scavare dentro di sé, ma anche a reagire alle avversità...francamente non credo siano molte le bands oggi in grado di fare questo e con tali risultati...quindi viva i
DGM, vero orgoglio italiano!