Negli ultimi anni mi è capitato di recensire quintalate di band dedite al thrash metal di stampo ottantiano, molte davvero interessanti, tantissime altre decisamente meno. Mai però fino ad ora mi era capitato di imbattermi in una band che come punto di riferimento primario avesse niente meno che i Forbidden! È il caso, l’avrete capito, dei
Mosh-Pit Justice, che ci presentano il loro nuovo album “
The fifth of doom”.
Forti di una formazione stabile fin dalla nascita, i bulgari proseguono il loro particolare percorso di crescita e arrivano a pubblicare il loro quinto album, accompagnati come sempre dalla loro simpatica mascotte, un gorilla metallaro che questa volta è in sella ad un cavallo infernale. Partiti da un thrash metal più furioso, vicino ai Nuclear Assault, per capirci, approdano ora, come già accennato, a qualcosa di più tecnico e costruito, e la band di
Russ Anderson e
Craig Locicero è quella che più di altre fa capolino durante l’ascolto di “
The fifth of doom”, insieme agli Heathen. Questo grazie ad un lavoro di chitarra veramente pregevole, con riff articolati e melodie taglienti, ai tipici cori, ed anche grazie alla voce squillante e potente di
Georgy Peichev, che riesce a ritagliarsi un suo ruolo ben specifico all’interno delle composizioni.
Ritmiche elevate quindi, ad opera peraltro di
Staffa Vasilev, che ricopre il doppio ruolo di batterista e chitarrista della band, assoli di pregevole fattura, che badano molto alla costruzione melodica e non solo alla velocità fine a sé stessa, ma quello che si apprezza di più delle composizioni è il riffing, come già accennato, in quanto lo stesso
Staffa riesce a risultare particolarmente fantasioso nell’intersecare fraseggi più complessi a riff più secchi e diretti.
Chiariamo, se mai ce ne fosse bisogno, che per ovvie ragioni non stiamo certo parlando di un capolavoro, ma vi assicuro che nel complesso l’album riesce a risultare decisamente vario, tant’è che l’ascolto non è affatto tedioso, e anche le già citate influenze dei Forbidden sono ben lontane dal poter essere considerate plagio. La band, infatti, riesce a tirar fuori personalità e capacità sufficienti ad accaparrarsi una sufficienza abbondante grazie a brani pungenti come l’opener “
Designed to suffer”, che dopo una partenza in sordina si scatena in tutta la sua potenza, la dinamica “
Into the light”, “
Down we bleed”, forse la mia preferita dell’album o la conclusiva “
My transgression”.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?