Osservando i cinque ragazzi che compongono i Dealer, si ha la sensazione che siano stati sedotti dall’immaginario americano del “rock’n’roll outlaw”, della mitica vita “on the road”, delle cavalcate solitarie in sella ai bolidi d’acciaio attraverso le infinite highways statunitensi. Scenari indubbiamente carichi di fascino, però ben poca gente può sperimentarli in prima persona e non soltanto con i voli di fantasia. Non è il caso dei Dealer, stanziati in una realtà geografica assai meno romantica e selvaggia di quella descritta prima. Il quintetto infatti vive nell’ordinata e sonnacchiosa Linz, piccolo centro della vicina Austria.
Dunque né sconfinate praterie né deserti infuocati, bensì i verdeggianti declivi delle Alpi. La cosa non ha però impedito agli austriaci di maturare una vera e propria venerazione per il rock a stelle e striscie, quello che parte dai primi Aerosmith e finisce con i Guns’n’Roses, ed anche per giganti superiori a qualsiasi discorso territoriale come i Rolling Stones. Sono proprio i nomi che balzano in mente ascoltando questo “Backdoor business”, pieno zeppo di citazioni dei classici rock e sospeso a metà strada tra attitudine ruvida e respiro melodico, tra visceralità hard ed incursioni nel territorio radiofonico.
Sebbene il gruppo vanti discreta esperienza e competenza, essendo attivo nella scena locale da diversi anni, in questa occasione fallisce il bersaglio. I limiti dell’album non sono soltanto il contesto molto derivativo e la palese mancanza di personalità della band, ma è proprio la natura ibrida ed indefinita dello stile a togliere mordente alla proposta. Un songwriting già di per sé troppo ovvio e lineare, viene ulteriormente appiattito dalla perenne indecisione tra il profilo aggressivo e quello che strizza l’occhio al grande pubblico, finendo per risultare fiacco, stiracchiato e prevedibile, troppo molle per piacere ai veri rockers e poco accattivante per conquistare il popolo dei melodic-fans.
Saltuariamente il gruppo piazza anche qualche colpo discreto, vedi ad esempio l’iniziale “Rocky Monday” o la svelta ed energica “Candy man”, esempi scarni ma perlomeno grintosi di classico rock ottantiano. Ma il loro destino è quello di essere assorbiti nell’anonimato dei vari “Desperado Romeo”, “Dr. Dealgood”, “Death is just a snakebite”, ecc, brani che vagano alla ricerca di un’identità precisa finendo per risultare né carne né pesce. Poco convincente anche l’aspetto vocale, forzatamente adattato a seguire gli sbalzi dell’impostazione stilistica, a dimostrazione che se le idee sono confuse non basta affidarsi all’impegno e ad una tecnica dignitosa per ottenere un buon disco rock.
Immagino che i Dealer continueranno a sognare il loro mondo di bikers e di Harley, ed è bello e giusto che sia così. Ma se davvero vogliono emergere nella realtà musicale, dovranno lavorare davvero sodo e rimaneggiare parecchio il loro sound.
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