I
The Dead Daisies sono tra le poche
band “nuove”, consacrate al classico
hard-rock, capaci di conquistare una certa “visibilità” anche nell’ambito della scena
mainstream di riferimento, e questo senza “svendersi” e rinunciare alla propria integrità.
Una circostanza per certi versi, nonostante il ricco
pedigree dei protagonisti, “sorprendente”, che non ha potuto che procurare una grande soddisfazione innanzitutto in chi ha sempre considerato
John Corabi uno dei
vocalist più sottovalutati dell’intero globo terracqueo.
Ora che in questo “
Holy ground” il posto di
Corabi è stato preso nientemeno che da
Glenn “The Voice Of Rock“ Hughes, direi che lo
status di “supergruppo” appare ancor più consolidato e rafforzato, mentre prosegue imperterrita la diffusione del “verbo” della migliore tradizione del “rock duro”, quello screziato di
blues e intriso di fervore e passionalità.
Con uno dei cantanti più ammirati della storia dietro il microfono, sono probabilmente i Black Country Communion una delle principali pietre di paragone degli attuali
The Dead Daisies, e se vi piacciono questi “vecchi suoni” rivitalizzati da “gente” che conosce assai bene la materia e ha l’intelligenza di proporla senza tronfie nostalgie,
beh, non vi resta che contattare immantinente il vostro “music pusher” di fiducia.
Eh già, perché se
Hughes ribadisce tutto il suo inattaccabile carisma, non sono da meno le chitarre di
Doug Aldrich e
David Lowy e la batteria voluminosa di
Deen Castronovo (che nel frattempo,
ahimè, ha lasciato la
band), il tutto coagulato in un crogiolo sonoro sufficientemente variegato e per nulla “individualistico”, in cui l’obiettivo supremo è far vibrare all’unisono talenti di rara grandezza e cultura.
Nel disco troverete esattamente quello che immagino vi aspettiate da questi “signori” … energia, sensibilità e intensità, “roba” che pervade i solchi dell’opera fin dal suo palpitante atto d’apertura, una
title-track che, come sembra voler attestare il suo sottotitolo, “strapazza” memorie mai rimosse di Led Zeppelin, Whitesnake, Bad Company e Soundgarden.
Il
groove possente e
soulful di “
Like no other (Bassline)” è la “palestra” perfetta per sollecitare in maniera sublime le flessuose corde vocali e le agili dita dell’inossidabile
Glenn, e se “
Come alive” è un momento di
hard-blues di enorme suggestione, la successiva “
Bustle and flow” sembra davvero voler lanciare uno sfacciato “guanto di sfida” ad Aerosmith e AC/DC (ancora non mi capacito che i nostri lettori abbiano voluto gratificare "
Power up" con il sesto posto nella
Top Ten del 2020 … spero si sia trattato di una sorta di “premio alla carriera” …), entrambi, ne sono abbastanza convinto, nel loro intimo piuttosto “impressionati” da tale impegnativa contesa.
Inquietudini e oscurità avvolgono la magnetica “
My fate”, con “
Chosen and justified” il clima si colora di Thin Lizzy e Trapeze e in “
Saving grace” si assiste a un pulsante crescendo emotivo di sicura efficacia.
“
Unspoken” è semplicemente il singolo perfetto di un grande albo di
hard-rock, mentre il
remake di “
30 days in the hole” dimostra (analogamente a quanto fecero a suo tempo i Mr. Big) che si può rifulgere di luce propria anche celebrando un monumento come gli Humble Pie.
C’è ancora spazio per gli aromi esotici e la melodia intrigante di “
Righteous days” e, soprattutto, per l’eterea e sfarzosa psichedelia di “
Far away”, in grado di ricordare, ancora una volta, talune soluzioni espressive degli indimenticati Soundgarden.
Forse leggermente meno “ruffiano” dei suoi predecessori più recenti, “
Holy ground” conferma i
The Dead Daisies campioni assoluti di un genere musicale che nelle loro mani unisce un glorioso passato a uno scintillante presente ... difficile fare meglio di così.