Dietro ad una copertina decisamente grottesca, si cela il sesto capitolo discografico
“Vide” dei belgi
Emptiness, pubblicato dalla
Season of Mist.
Una carriera che negli ultimi lavori si è allontanata dal metal oltre a farsi via via sempre più sperimentale quella del quartetto belga, che ha il supporto di un’etichetta decisamente importante: la scommessa degli
Emptiness è stata vinta?
Risposta secca: no.
Vero, gli
Emptiness hanno uno stile molto peculiare e idee che riescono a conferirgli anche una certa personalità, ma rispetto a quello che fu il trip hop degli anni ’90 i nostri dimostrano di non essere riusciti ad apprendere appieno la lezione impartita dai maestri del bristol sound come invece è riuscito ad altri (gli
Ulver con il metropolitano
"Perdition City" su tutti!).
Se il paragone si fa con artisti del calibro di
Portishead,
Massive Attack o
Tricky, beh il risultato è sfortunatamente impietoso, specialmente per quanto riguarda le melodie vocali: qui non ci sono parti rappate, voci femminili o voci soul, qui abbiamo una voce maschile molto melodica, pacata, a volte pure sussurrata, canta le varie liriche in francese. Scelta quest’ultima particolarmente interessante visto il suono molto dolce e intimo che ha la lingua dei nostri cugini d’oltralpe, ma è tutto buttato al vento per la scelta deleteria di sovraccaricarla di effetti vari, rendendo il tutto tremendamente confuso e impastato, facendo quindi passare in secondo piano le liriche e le stesse atmosfere.
Le atmosfere, quello che ha reso realmente affascinante ed interessante il trip hop, sono quelle classiche del genere, oscure, soffuse, quasi notturne e meditative, ma ciò viene in parte rovinato dalla scelta di aver effettato così tanto la voce di
Jérémie Bézier.
Per il resto abbiamo un tappetto di synth cupi e minimali levigati bene da
David Alexandre Parquier (in veste di ospite), un basso e una chitarra dimessi e delle ritmiche urbane che sorreggono il tutto. Dall’altra parte invece il quartetto strizza l’occhio alla new wave, che mai come in questi ultimi anni (
Leprous,
Steven Wilson e
Ulver sono tra i tanti ad aver rispolverato quei synth cupi per unirli nuovamente a quelli ammiccamenti pop tipici degli anni ’80) sembra essere risorta.
Un coraggio che non ha totalmente pagato in questo lavoro riuscito a metà, che per via di vocals confuse ed effettate, a parti lente prolisse, si ha un’altalena qualitativa che nella seconda metà del lavoro perde il suo interesse. Immagino che certe scelte siano state fatte con grande consapevolezza, ma il risultato finale lascia l’amaro in bocca.
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