Anno particolarmente intenso questo per la cult label tedesca
High Roller Records, nevvero? Alla folta lista di ristampe in Lp a fine marzo è uscito il il debut album degli americani
Legendry, pubblicato in formato cd nel 2016.
Questa band proveniente da Pittsburgh, in Pennsylvania dopo aver ascoltato questi solchi, possiamo benissimo affermare senza alcun timore di smentita che pare essere cresciuta a pane e
Manilla Road. In effetti i fattori che rimandano alla band del compianto
Mark Shelton sono parecchi.
A volte mi viene quasi da chiedere quando l’ispirazione sconfini nel plagio, ma tant’è: troviamo una voce singolare (e nemmeno tanto potente a dire il vero…), canzoni dal minutaggio più o meno corposo con ampie parti strumentali e lunghi assoli di chitarra, produzione deficitaria… insomma, i
Legendry sono dei veri e propri discepoli di
Mark “The Shark” Shelton, senza però aimè averne la stessa caratura artistica. E oltre a copiare (a volte bene, molto spesso maluccio), fanno poco altro i nostri.
“For Metal We Ride” se fosse stata cantata da un altro cantante sarebbe stato un inno da corna al cielo tra l’intro acustica, le linee melodiche azzeccate e i versi “We fight for our glory, we fight for our pride, Heavy Metal tells our story, for metal we will ride”.
“Ancestors Wrath” è un altro pezzo discreto con i suoi riff megalitici, anche se alla fine ha una certa banalità di fondo, con gli acuti del cantante (pochi per fortuna) a dir poco comici!
“Attack of the Necromancer” risulta essere quasi un pezzo da 90 (se non fosse per cantante e produzione) con le iniziali percussioni orientali con tanto di tabla, una lunga coda strumentale ammaliante con tanto di finale monolitico e poi incalzante. Quasi non ci si riesce a credere, visto il livello decisamente più basso del resto della tracklist, tra un omaggio discreto ai
Manilla Road con la mitologica
“Necropolis”, le lunghe e prolisse
“Mists of Time” e
“Winds of Hyboria” che se avessero avuto un minutaggio più snello sarebbero state ben più apprezzabili.
Dietro ad un’apprezzabile cover colorata e selvaggia, alla solita qualità delle edizioni fisiche della
High Roller Records si cela un album traballante e trascurabile, con alcune belle idee ma anche una forte crisi di identità. In più come se non bastasse la registrazione è a livelli quasi da demo casalinga con i suoni ovattati e impastati che fanno perdere la grinta che c’è in mezzo, con la bara chiusa definitivamente da un singer per niente all’altezza della situazione che mi dispiace dirlo, ma ho trovato quasi imbarazzante per timbro, espressività e potenza.
Risparmiate i vostri soldi per altre ristampe, nella speranza che l’ottima
High Roller Records torni a puntare su qualcosa di ben più sostanzioso!