Una domanda mi assale nel momento in cui mi accingo a scrivere questa recensione: può una band, in una manciata di anni, suonare così diversa tra un ep, "
Roadtrip" del 2017, e un full lenght, questo "
Red Carpet To Paradise"?
La risposta è una sola: sì, pure bene e dannatamente convincente.
Se nel precedente ep, i cinque svizzeri degli
Exsom strizzavano l'occhio verso un power/prog, che spesso mi ha ricordato i Vision Divine, con melodie precise, solos di chitarra praticamente perfetti e linee vocali taglienti, con questo disco di debutto ecco che il sound cambia, decisamente.
L'elettronica presente in "Roadtrip", così timida e abbozzata, ora gonfia il petto e alza la voce, prendendo per il bavero le chitarre, diventando di fatto l'ossatura portante di tutti i brani.
Ma attenzione, non parliamo di elettronica tamarra butta lì a casaccio, come fanno molte band dedite al modern metal (mai termine risulta più orrendo di questo), bensì di un lavoro costruito perfettamente, che coinvolge tutti gli altri strumenti, le chitarre in prima battuta.
Probabilmente il fatto che la componente elettronica sia composta e suonata da
Tullio Roccasalva, impegnato anche alle chitarre insieme a
Juri Vukusic, agevola l'amalgama tra le due anime del songwriting.
Le chitarre, in fase solistica, regalano spesso più di un'emozione, con fughe dalle tinte hard rock e classic metal, reminiscenze degli eighties che escono dalle casse e avvolgono l'ascoltatore di turno, come un canto di sirene.
Ma tutto ciò non basterebbe se dietro non ci fosse un motore ritmico che va come un treno (
Pietro Ferrari al basso e
Lorenzo Sedili alla batteria) e che tiene in piedi questo dancefloor finalmente scevro di inutili orpelli (come spesso accade, anche a band ben più famose e blasonate).
Nota di merito anche per la voce di
Stefano Dell'Ava, a suo agio nei vari registri utilizzati lungo gli undici pezzi del disco; passa dalla voci soffuse e suadenti tipicamente numetal, a quelle più rocciose, ma mai troppo urlate, del "core" (metteteci voi il prefisso che preferite).
Prodursi in una recensione track by track non credo sia il caso, perché per chi scrive, tutto il disco è buono, a tratti buonissimo.
Cito tre brani, per gli amanti del sound "in your face", che potrebbero diventare ben presto dei classici del genere (ma quale genere? nel disco troviamo prog, djent metalcore, pop, hard rock, classic metal...insomma, alle volte le etichette sono così castranti!):
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God Is In The Rain" con un incipit elettronica/voce, smaccatamente commerciale, pop svedese di classe sopraffina, per poi sfociare in un stop and go continuo, con strappi alla colonna vertebrale, perché rimanere fermi è praticamente impossibile;
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Drugs" è uno schiaffo in pieno volto, uno di quelli che lasciano il segno, le vocals si fanno più basse, l'elettronica cuce un abito pieno di lustrini e la batteria, effettata come non mai, cadenza il tutto fino al break che toglie il fiato, per poi ripartire con melodie da videogioco anni 80: un trip totale!
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Dirty Love" invece, regredisce il songwriting, la band torna a pestare in maniera più istintiva, quasi primitiva, le vocals si fanno più grattate e l'elettronica si limita a cucire insieme le parti della traccia, senza mai scadere in un banale patchwork di cliché.
Insomma, lasciando a zero qualsiasi facile entusiasmo, "
Red Carpet To Paradise" è un disco ben fatto, coinvolgente, genuino e credo ci si possa cedere, ogni tanto, al ballerino sopito in tutti noi.
(L'unica cosa stonata è la copertina: uno pensa di avere a che fare con un gruppo stoner/doom ed invece...)