Il metalcore non ha scosso la scena metal, come fece qualche anno prima il Nu Metal (questo sì, un vero fenomeno di rottura), ma ha portato al proliferare di band non sempre valide, anzi, e una moltitudine di dischi trascurabilissimi.
Il suffisso "core", che tanto ha dato alla scena musicale che tutti amiamo, nel metalcore è stato annacquato e reso quasi sterile e inoffensivo.
Perchè non basta gridare dentro ad un microfono o ribassare di un paio di toni le chitarre per suonare cattivi e al contempo credibili.
Ci vuole la giusta attitudine e, non guasta mai, un songwriting davvero ispirato. Queste sono due ottime basi per partire a scrivere un lotto di canzoni valide.
Gli inglesi
Loathe, qui al debutto sulla lunga distanza (anche se in rete girano voci su un presunto full lenght uscito un paio d'anni prima), nonostante un sound ancora acerbo e non privo di qualche ingenuità, lasciano trasparire tutta la loro bontà con una manciata di canzoni davvero belle e convincenti.
L'album parte con la titletrack, un minuto e poco più di soundscapes che ci introducono al primo brano killer del disco, "
It's Yours" che riprende i suoni soffusi dell'intro per poi esplodere in un muro di chitarre ben accompagnate dall'ugola graffiante di
Kadeem France, che si divide tra il cantato quasi death e clean vocals melodiose ma non zuccherine (sulle parti pulite, c'è anche lo zampino del chitarrista solista
Erik Bickerstaffe, mentre
Connor Sweeney, alla chitarra ritmica, e
Shayne Smith, basso, si occupano dei cori).
Siamo di fronte ad un metalcore che strizza l'occhio al death e al groove, con una base ritmica chiaramente innamorata di
Pantera e
Fear Factory.
La successiva "
Dance On My Skin" è più diretta, rifiuta ogni compromesso, parte a testa bassa e pure sul finire, con quei break rallentati, la tensione rimane alta.
"
East Of Eden" è probabilmente il brano migliore dell'album, sapientemente violenta e radiofonica, se riuscite ad immaginare qualcosa che parte, ti prende a schiaffi con chitarre ultracompresse ed un basso che non risparmia calci in bocca, salvo poi esplodere in un chorus da brividi e rallentamenti melodici che mi hanno ricordato tantissimo gli SmaXone del primo disco.
"
Loathe" segue sulle stesse coordinate, strizzando di più l'occhio alla melodia, avendo al suo interno vari momenti di tranquillità (presunta), giocando sporco sui midtempos, dove il basso recita da protagonista con quel sound grasso e pieno, quasi fuori contesto rispetto al riffing chirurgico della coppia Bickerstaffe/Sweeney.
Un intermezzo elettronico/acustico, "
3990", smorza la tensione, dando un attimo di respiro all'ascoltatore; "
Stigmata" è poco convincente, si perde dentro a giri di chitarra quasi anonimi e tutta la band perde colpi, vittima di un autocompiacimento che se non controllato, rischia di fare danni enormi.
"
P.U.R.P.L.E." è un monolite di metallo rovente, tutto incentrato su midtempos granitici, così spessi da sembrare impenetrabili. Il finale è subdolo, con quella melodia placida che deflagra in una coda rumorosa.
La band cosparge di inserti elettronici, mai invadenti va detto, tutto il disco, e con "
The Omission", tre minuti di suoni dilatati, ci mostra un aspetto totalmente inedito: la tensione elettrificata delle chitarre è assente, così come il basso e il drumming; rimane solo un gelido abbraccio di macchine prive di pietà ed empatia.
"
Nothing More", strumentale, e "
Never More" sono due fillers francamente skippabili (insieme a "
Stigmata" sono le peggiori del disco) mentre la conclusiva "
Babylon..." prende l'intimità di "
The Omission" sposandola con una verve rockeggiante, da airplay perfetto per un centro commerciale, quindi senza mai detonare del tutto.
Ecco, il disco è terminato e le sensazioni positive sono maggiori di quelle negative.
La band, come dimostreranno gli album successivi, saprà far tesoro degli errori di questo "The Cold Sun" portando la loro proposta ad alti livelli.